È sempre difficile provarsi a fornire una visione d’insieme di vicende storiche all’interno delle quali si è collocati. Ma, nonostante l’elevato rischio di fallimento, è un tentativo che merita di essere fatto, essendo precondizione per ordinare l’azione razionale nel presente storico. Nelle poche righe che seguono voglio provarmi a tratteggiare in maniera schematica i lineamenti generali del vortice economico depressivo in cui ci troviamo da circa sette anni. Nessuno dei passaggi che ricorderò è particolarmente nuovo né particolarmente controverso, basandosi su dati noti e analisi consolidate (P. Krugman, J. Stiglitz, Th. Piketty ed altri). La mia speranza è che l’unico elemento marginalmente nuovo, ovvero lo sguardo sinottico su questi eventi, possa aiutare il lettore ad orientare il proprio giudizio in questi tempi complicati. Naturalmente nel quadro generalissimo che emergerà verranno trascurate importanti specificità delle singole situazioni, ma questo è un peccato argomentativo in cui incorriamo coscientemente, per cercare di cogliere una struttura essenziale al di sotto delle particolari vicende nazionali.
I passaggi cruciali che riassumono l’andamento della presente crisi possono essere ricondotti ai seguenti sette.
1) L’innesco. In una descrizione storica non c’è mai un inizio assoluto. Le descrizioni correnti della presente crisi partono di norma dal tentativo di uscire dalla crisi precedente (lo scoppio della cosiddetta bolla tecnologica, 2000-2002). Ma in verità se di un ‘inizio’ di questa vicenda si può parlare, questo risiede in un problema presente da decenni nell’economia statunitense così come (in misura variabile) in tutte le economie maggiormente industrializzate: una crescita economica ridotta rispetto agli standard del trentennio 1945-1975. Dagli anni ’70, anche in presenza di crescita economica, i redditi della maggioranza della popolazione sono risultati tendenzialmente stagnanti, mentre risultano contrarsi nelle fasi recessive. Redditi stagnanti o in contrazione dei più (οἱ πολλοί,) significa stagnazione dei consumi, ergo, in presenza di aumenti di produttività, significa eccesso di produzione e disoccupazione. L’innesco della crisi sta dunque nella oramai pluridecennale necessità di ovviare ad una riduzione del potere d’acquisto dei più (negli USA, ma anche in Europa). Per ovviare a questo problema la via maestra sarebbe stata una politica redistributiva (tassazione fortemente progressiva, et similia). Ma per fare ciò sarebbe stata necessaria una forza che le élite politiche, in particolare negli USA (ma non solo), con tutta evidenza non hanno avuto e continuano a non avere. Come si è cercato allora di ovviare a questi problemi di sottoconsumo lasciando intoccati i patrimoni più elevati e la forbice reddituale?
2) La miccia. Per sfuggire al rischio di spirali recessive, senza toccare le distribuzioni patrimoniali, la soluzione adottata è stata di ricercare interventi a costo zero che stimolassero la crescita, ma ciò prefigura una direzione precisa: una riduzione di regole, obblighi, controlli, diritti (deregulation). Infatti, come insegna la teoria, ogni vincolo normativo è qualcosa che toglie al mercato un’area di transazioni possibili. Meno regole, più transazioni. Più transazioni più crescita. Naturalmente non tutte le liberalizzazioni hanno lo stesso significato. Quelle cruciali per intendere la crisi attuale sono state le deregolamentazioni dei mercati finanziari e dei sistemi bancari, avvenuti negli USA e, parzialmente, anche in Europa. Nell’evoluzione recente della deregolamentazione americana spiccano l’obliterazione delle differenze tra banche d’affari e banche commerciali (cancellazione dello Glass-Steagall Act, 1996-1999) e il sostanziale abbandono di un monitoraggio terzo sui rischi contratti dalle banche d’investimento (Voluntary Regulation, 2004). Ma nella stessa classe generale di interventi ritroviamo tutte le mosse rivolte ad un arretramento del ruolo, sia di regolatore che di investitore, dello stato, secondo la norma: ogni cosa in meno fatta dallo stato crea uno spazio in più per il mercato privato.
3) L’esplosivo. Tra gli effetti della deregulation ricordiamo in primo luogo la possibilità degli istituti di credito di fondersi fino a raggiungere dimensioni patrimonialmente colossali. In secondo luogo, lasciata con le mani libere, la finanza (americana, ma parlare di nazionalità in ambito finanziario è fuorviante) ha messo al lavoro i propri migliori ingegni per produrre svariate innovazioni finanziarie. Ne ricordiamo solo le tre più rilevanti per la presente crisi. Il primo elemento inventivo, al cui nome è associata la crisi stessa, è stata la concessione di mutui subprime, cioè di mutui per acquisto casa a tassi variabili anche a persone con redditi scarsi e/o instabili. Questa mossa ha aumentato d’un tratto i potenziali acquirenti di casa, nonostante la stagnazione dei redditi: i meno abbienti sono stati dichiarati d’ufficio sufficientemente benestanti, senza l’onere di mettergli davvero più denaro in tasca. La crescita della domanda nel settore immobiliare ha naturalmente prodotto un aumento dei valori degli immobili stessi (bolla immobiliare: + 42% tra il 1999 e il 2006). Subentra qui una seconda innovazione degna di nota: ai mutuatari americani è stata concessa la possibilità di ottenere prestiti mettendo a garanzia la casa stessa (in via di pagamento), contando sul fatto che il valore degli immobili stava aumentando (se la tua casa comprata per 100 ora ne vale 110, perché non capitalizzare subito quei 10?). Ciò ha permesso di aumentare ancora le disponibilità reddituali, senza aumenti salariali. Il vero colpo di genio sta però nel terzo passo. Di norma nessuna banca adotterebbe una politica così azzardata, se dovesse accollarsi in pieno il rischio delle insolvenze dei mutuatari. Come evitare il problema? La risposta è stata la ‘cartolarizzazione’ dei mutui: gli stessi contratti di mutuo sono stati trasformati in bond (Asset Backed Securities), e poi aggregati ed impacchettati in altre obbligazioni (Collateralized Debt Obligations), che sono stati a loro volta re-impacchettati in titoli ‘protettivi’ (Credit Default Swaps), ecc. Questo processo ha sostanzialmente consentito alle banche che avevano contratto mutui fragili di infilarli come rendite all’interno di altre rendite (es. fondi pensione), disperdendoli nel mercato in forma non identificabile e, apparentemente, diluendo i propri rischi.
4) Lo scoppio. Come nella migliore tradizione delle bolle finanziarie ad un certo punto (alla fine del 2006) la bolla immobiliare scoppia. Il meccanismo delle bolle speculative è ben noto: il valore di partenza di un bene dovrebbe essere legato alla prospettiva di quanto profitto esso possa produrre. Sul mercato finanziario tale valutazione di merito viene soppiantata da una valutazione svincolata dal bene reale: gli operatori finanziari non si interessano più dei ‘fondamentali’ di aziende quotate o simili ma solo delle aspettative altrui rispetto al valore del titolo che le rappresenta. Se ci sono in giro altri compratori disponibili a comprare quell’asset ad un prezzo superiore a quello di acquisto ci sono ragioni per l’operatore di continuare a comprarlo (per rivenderlo). Finché questa credenza nella disponibilità altrui a comprare per un prezzo superiore persiste, il prezzo dell’asset può aumentare infinitamente. Come sempre, ad un certo punto capita che qualcuno dica che il re è nudo, e le aspettative cambiano verso: tutti quelli che hanno in mano quegli asset sopravvalutati cercano di venderli il più in fretta possibile, sapendo che inizieranno a perdere di valore. E ciò ne produce un’ulteriore progressiva perdita di valore, in una spirale questa volta depressiva.
5) Il domino. Ed ora le tessere del domino cominciano a cadere, una dopo l’altra. Il crollo del mercato finanziario (immobiliare) produce perdite crescenti ed imprevedibili per gli istituti di credito, che reagiscono contraendo l’erogazione dei prestiti, temendo di rimanere a corto di liquidità. Ciò aumenta i tassi di interesse interbancario, cui sono agganciati i mutui variabili, che accentua ancora l’insolvibilità dei mutui più fragili. Inoltre la contrazione della liquidità bancaria si scarica sulle aziende (soprattutto medio-piccole), e queste a loro volta si scaricano sul mercato del lavoro, in forma di licenziamenti. Naturalmente, essendo il sistema finanziario costitutivamente transnazionale gli effetti della crisi finanziaria si diffondono internazionalmente. L’economia virtuale spezza la schiena a quella reale.
6) Il cavaliere dalla triste figura. A questo punto, quando il crollo dei mercati finanziari mina il mercato del lavoro, e fallimenti bancari a catena si profilano all’orizzonte, compare sulla scena di quest’avventura la figura tragica dello stato nazionale. Per porre un freno a questi fronti di crisi gli stati nazionali sono costretti ad intervenire con denaro pubblico. Ciò accade soprattutto in due forme: con ammortizzatori sociali per la disoccupazione (es.: cassa integrazione straordinaria) e come sostegno finanziario agli istituti di credito troppo grandi per poter fallire senza portare con sé il sistema creditizio (compresi i risparmi dei piccoli risparmiatori). Lo stato, dai cui lacci e lacciuoli i mercati volevano emanciparsi, diviene per un breve momento il valente e malinconico cavaliere chiamato in soccorso di quei mercati stessi. L’esito del nobile gesto è naturalmente un trasferimento netto dal settore pubblico al settore privato.
7) Il giro di vite. Si giunge così al colpo di teatro finale. Donde la malinconia del nostro valente cavaliere? È presto detto: gli interventi degli stati nazionali ne aumentano il debito pubblico. Ne segue che gli stati sono messi sotto pressione da aumenti dei tassi di interesse sul debito (spread) e, talora, da rischi di default. A questo punto gli stati indebitati sembrano avere una sola opzione bifronte, e cioè ridurre peso e perimetro dello stato, in due modi: 1) riducendo gli impegni di spesa statale e 2) riducendo la regolamentazione dei mercati.
7.1) La riduzione delle spese statali (con privatizzazioni e/o riduzione dei servizi pubblici) ha, apparentemente, un doppio effetto benefico. Da un lato, lo stato debitore appare virtuoso ai mercati, lestamente trasformatisi in giudici: piace qui ai mercati evocare la mitica figura del buon padre di famiglia che stringe la cinghia quando scopre di ‘star vivendo al di sopra dei propri mezzi’. Dall’altro lato il disimpegno statale lascia aperta alla fornitura di servizi privati campi prima occupati dal pubblico.
7.2) La riduzione della regolamentazione, infine, togliendo controlli, ‘lacci e lacciuoli’ consente di creare nuovi spazi di transazione, prima impossibili.
Ma questo naturalmente ci riporta, come in un deprimente gioco dell’oca, all’inizio della presente sequenza, dove viene esercitata una pressione al ribasso su salari e regolamentazioni, onde permettere ai mercati di ripartire per nuove intrepide avventure.
Questo meccanismo preterintenzionale ha senza dubbio una sua singolare efficienza, e quasi un’inquietante bellezza. Come in un complesso sofisma, ogni singolo passo per uscire dal labirinto sembra ragionevole, fino a che non ci si ritrova al punto di partenza. Solo più poveri e disorientati. E qui un’analogia importuna mi si impone: questo processo mi ricorda una macchina di tortura vista una volta in un museo dedicato. Si trattava di una garrota spagnola, con un laccio di cuoio deputato a strangolare il condannato, con sul retro una specie di grossa vite da girare a due mani: ad ogni giro di vite il laccio si stringeva, ma mollando la presa della vite il laccio non si allentava, perché c’era un dente d’arresto ad impedirlo. L’immagine, lo ammetto, è un po’ cruenta, ma provo a spiegarmi.
Questo processo ha alcune caratteristiche peculiari, che, in conclusione, possiamo provare a riassumere nelle seguenti tre dinamiche.
A) In primo luogo il processo si dispiega in maniera costitutivamente asimmetrica. Se, per dire, l’economia cresce, i valori di mercato crescono, e la Borsa gioiosamente costruisce la prossima bolla, questa di norma rappresenta una notizia neutrale per i redditi da lavoro, che crescono molto di meno o per nulla. Ciò avviene per vari motivi, ma principalmente perché chi ha maggior potere contrattuale (detiene maggiore capitale) è nelle condizioni di appropriarsi di una fetta più che proporzionale del prodotto sociale. Quando la Borsa è euforica, questa è una notizia univocamente buona solo per i detentori di capitale (e tanto di più, quanto più capitale detengono). Diversamente vanno le cose quando subentra una fase di contrazione e depressione. Un crollo della Borsa è funesta novella per tutti, scaricandosi rapidamente, ed in maniera massiccia, sulla sfera dei redditi da lavoro.
B) In secondo luogo all’occorrere di ciascuna crisi la capacità di regolamentazione ed intervento pubblico è spinta a ridursi, e simultaneamente la patrimonializzazione pubblica tende a ridursi a beneficio di quella privata. Gli stati non possono non intervenire quando la crisi si verifica, perché i problemi dei mercati divengono rapidamente problemi sociali generali. Ma al tempo stesso ogni intervento mette gli stati in sempre maggior misura alla mercé dei mercati. Accade così, come mostrato recentemente da Piketty, che, mentre tutti gli stati nazionali del mondo sono, chi più chi meno, indebitati, le patrimonializzazioni private negli ultimi trent’anni risultano in continua crescita rispetto a quelle pubbliche (oramai nell’ordine del 6-700% in USA ed Europa).
C) In terzo ed ultimo luogo troviamo una dinamica più sottile, ma non meno incisiva. La riduzione progressiva dell’intervento pubblico aumenta l’insicurezza del cittadino medio, riducendone le garanzie pubbliche su vecchiaia, salute, calamità naturali, sicurezza del posto di lavoro, ecc. Ciò spinge chi è in grado di farlo a difendersi, acquistando sul mercato privato pensioni integrative, assicurazioni, accantonamenti sperabilmente fruttiferi, ecc. E ciò ha un rimarchevole duplice effetto. Economicamente, questo movimento sottrae denaro al consumo trasferendolo nella rendita, e ciò accentua le crisi della domanda ed i rischi recessivi. Politicamente, ciò spinge sempre più i cittadini ad essere solidali con gli interessi del ‘capitale’, a scapito di altri interessi collettivi. Perché? Ma perché il lavoratore che sia divenuto anche piccolo risparmiatore teme, giustamente, di veder messi a repentaglio i piccoli margini di sicurezza che tenta faticosamente di procurarsi. E così il cerchio si chiude una volta di più: chi lotta quotidianamente campando del proprio lavoro viene indotto a guardare con ostilità ogni attacco al capitale (tassazione delle rendite finanziarie, degli immobili, ecc.), facendosi democratico sodale di quell’1% che detiene i veri capitali.
Per dar conto di questo meccanismo non c’è qui alcuna necessità di appellarsi a congiure, complotti o piani preordinati. Talora nella storia sociale, come in quella naturale, nascono ordinamenti spontanei che generano equilibri armonici. E talaltra generano processi mirabilmente autodistruttivi. Quel che però è certo è che, salvo colpi di reni dell’umano ingegno, gli interessi della rendita hanno vinto gioco, set e partita (economicamente, politicamente e, socialmente). Il cerchio si chiude, la vite si stringe, il senso di soffocamento cresce.
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