Ora che la querelle sull’articolo 18 si sta avviando, almeno provvisoriamente, alla conclusione, si può cominciare a stilare un primo bilancio su una vicenda che continua ad alimentare infuocate discussioni. Molto si è detto e molto si è scritto, ma vale forse ancora la pena di spendere qualche parola in proposito. E per farlo è opportuno partire dall’articolo 1 della Costituzione, di cui non per caso la destra aveva proposto a suo tempo la soppressione, che pone il lavoro a fondamento della Repubblica – per quanto la centralità del lavoro quale fondamento di legittimità della Costituzione traspaia con chiarezza anche dagli articoli dall’1 al 4, e dal 35 al 47, cioè l’intero titolo III, che riguarda i rapporti economici fra i cittadini.
Cosa significa che la Repubblica è «fondata sul lavoro»? Significa che il lavoro non è un fatto privato, perché è il presupposto della vita sociale e individuale della maggior parte delle persone, e perché si svolge nel luogo in cui si concentra il potere che incide davvero: il potere economico. Non è perciò soltanto un servizio più o meno equamente retribuito, ma un’attività cui va riconosciuta una essenziale funzione sociale, dal momento che è nel lavoro che si esprimono con la massima evidenza le relazioni e le diseguaglianze di potere. Significa che il lavoro è il pilastro costituzionale di una società che può essere a misura d’uomo, ma solo quando è azione libera e non attività cieca e subalterna, solo quando è impegno a realizzare se stessi insieme agli altri e a creare e alimentare legami sociali sottratti alla cieca casualità della nascita, del censo, del genere o della ricchezza. E significa che il lavoro è la matrice sociale dei diritti, soprattutto sociali, che, per quanto in via di smantellamento, hanno rappresentato la più importante conquiesta dei grandi conflitti redistributivi tra capitale e lavoro. Anche per questo il lavoro non è un fatto privato che riguarda soltanto imprenditori e lavoratori, ma è anzitutto un fatto politico, da porre a fondamento, come videro con lungimiranza i nostri padri costituenti, a fondamento della res publica e del nostro vivere civile.
Non per caso la Sinistra si è costruita in Occidente intorno alla questione del lavoro, e ha cercato di intercettarne ed esprimerne le dinamiche emancipative in funzione di una trasformazione sociale che intendeva restituire dignità e diritti ai lavoratori ripoliticizzando le relazioni economiche. Dal momento che è nel lavoro che si presentano, in statu nascendi per così dire, i dislivelli di potere che è possibile ritrovare, su altra scala, a livello sociale, i diritti individuali e collettivi – conquistati nei luoghi della produzione grazie al «compromesso socialdemocratico» tra le ragioni del capitale che dà lavoro e le ragioni dei lavoratori salariati – sono (o sono stati) uno straordinario vettore di emancipazione per tutti i cittadini. La democrazia dei diritti è la società nella quale i diritti diventano realtà concreta e materialmente afferrabile proprio a partire dal luogo in cui la maggior parte degli esseri umani spende le proprie energie, e cioè il luogo di lavoro. Per questo non sono pochi quelli che guardano a quanto sta accadendo nel Partito democratico con un misto di sorpresa e disorientamento. Il partito che si era storicamente fatto garante del compromesso col mondo delle imprese dal punto di vista dei lavoratori sembra avere spostato il suo baricentro, modificando l’equilibrio, politicamente garantito, fra il capitale e il lavoro a vantaggio del primo e a svantaggio del secondo.
La vicenda dell’articolo 18, che ha diviso il partito tra una maggioranza e una minoranza l’una e l’altra apparentemente poco disponibili al compromesso lascia in realtà trasparire un dissenso ben più profondo, che investe direttamente il senso e il significato dell’azione politica in ordine all’uscita dal crescente disallineamento tra poteri dominanti e democrazia. Si sente spesso ripetere che la battaglia sull’articolo 18 è stata caricata di significati impropri. In realtà, non è proprio così. Non è certo la prima volta che un governo tenta di abolire l’articolo 18, ma è la prima volta che a tentare di farlo, riuscendoci, è un governo di «sinistra». È la prima volta, cioè, che la lotta tra chi vuole fare del lavoro un fatto privato e chi vuol fare del lavoro un fatto sociale, la lotta tra destra e sinistra, viene proiettata all’interno del Partito democratico. È la prima volta, cioè, che le relazioni tra capitale e lavoro possono essere ricondotte alla regola che vieta di proibire, come diceva Robert Nozick, uno dei maître à penser del neoliberismo, «atti capitalistici fra adulti consenzienti».
Per questo il conflitto tra la maggioranza del partito, che propone un’idea di lavoro come relazione privata, legittimata solo dal consenso dei contraenti, e la minoranza, che si oppone all’idea che una parte così importante della sfera sociale debba tornare a essere desocializzata o spoliticizzata, è indicativo di un cedimento proprio a quella ideologia neoliberale che sottomette al valore, al profitto, ogni aspetto della vita, e che ha prodotto una società ferocemente polarizzata tra (pochi) ricchissimi e (moltissimi) poveri. E ciò nonostante sia proprio la Costituzione a esigere che il lavoro non sia vincolato esclusivamente alle regole del mercato, non sia un bene solo economico, non sia solo merce come nell’Ottocento, ma sia invece legato alla regolamentazione politica e giuridica. Alla battaglia sull’articolo 18 non sono stati perciò attribuiti significati impropri, perché la sconfitta sul lavoro è la sconfitta della democrazia.
Non è un caso se è proprio su questo terreno che l’ideologia neoliberale ha costantemente cercato lo scontro e sul quale si è dato corso – per effetto dell’azione convergente del mercato senza regole e delle politiche pubbliche a esso subalterne – all’attacco sistematico ai diritti fondamentali stabiliti in Costituzione. Sorprende non poco, ed è il minimo che si possa dire, che a queste politiche regressive si stia oggi accodando, con l’entusiasmo degli ultimi arrivati, anche il partito che dovrebbe contrastarle. Ma sorprende ancora di più che non si pensi al solo strumento in grado di ridurre gli effetti destabilizzanti sulla vita delle persone che questa «riforma» sarà in grado di produrre: il reddito minimo di cittadinanza, che nella accentuata situazione di precarietà che si profila all’orizzonte, può rappresentare la sola garanzia di sicurezza dell’esistenza.
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