generazioni e ideologie

Il quadro sulla parete di questo tempo rappresenta un conflitto tra generazioni che sostituisce quello tra le ideologie. Strano spostamento questo, che forse nasconde una nuova ideologia, altri rapporti di forza, altri poteri. È l’ideologia della crisi. È però chiara la didascalia apposta al quadro: «Questa non è una crisi». Viene da ripetere con Magritte, ripensando a Foucault. Non è una crisi, ma una condizione per un modo di produzione di corpi frammentati e di relazioni a termine. “Questa non è una crisi”, è l’espressione dell’economia della precarietà, che in realtà nasconde un dinamismo, una velocità che abbrevia la durata del sonno e porta incubi in pieno giorno, mentre gli eccellenti fanno sogni d’oro.
La globalizzazione è visibilità di spazi, non una contemporaneità, perché è cospaziale, contiguità senza confini e periodizzazioni. La “convisibilità” fa capire ancora meglio la “morale” contraddittoria della “condivisione” e “competitività” insieme alla sharing economy che gli corrisponde. Economia d’incastro, così va tradotta. La precarietà è diventata una condizione esistenziale di un capitalismo esistentivo. È la “messa” a lavoro dell’esistenza. La vita in economia (bioeconomia) non c’entra se non come “forza”. Si rapporta perciò ai giovani che della forza/vita sono espressione. L’incessante diktat sulla disoccupazione giovanile è tanto più assurdo quando i dati ISTAT la riportano a giovani dai 14 ai 25 anni. Una follia. A quell’età si sta a scuola e ci si laurea. Non si parla di dispersione scolastica o di abbandono di studi, si fa la morale dei diritti per il lavoro minorile calpestati in Asia e si parla di disoccupazione per adolescenti e giovani. Poi si aggiunge che aumentano i posti di lavoro ma non cala la disoccupazione. Un Paese, meglio un’economia, che voglia produrre sapere dovrebbe fare calcoli di età assai diversi. Qualcosa sta cambiando anche nel fattore produttivo dell’intelligenza sociale. Servono quote d’eccellenza e intelligenze ridotte. È la medietà che occorre impiegare. L’occupazione si alimenta dalla dispersione e dall’abbandono scolastico. Vale in questa direzione la stessa prospettiva di legare scuola e lavoro.
Il precariato non è il proletariato, non diventa classe sociale, perché rimane inchiodato alla solitudine esistenziale dell’isolamento. Il precario è “uno a uno”, “sinolo”, come “single” è ormai l’espressione del separato, che non è da riferire solo alla coppia, ma al sociale. Il precariato non diventa classe, non ci sono perciò ideologie contrastanti così come non ci sono piani sociali di governo, perché si va avanti facendo la spesa del giorno corrente e l’impegno politico si riduce alla relazione d’aiuto. Sulla bacheca delle banche europee ci sono dei conti da rispettare, lo Stato è un’azienda privata come altre. Ci sono i parametri. Sono questi i confini.
A contrastare il non-modello-sociale della “governatorietà” di destra/sinistra/centro/ è ora l’autonomia. Non quella operaia, ma territoriale. Non di classe, ma di regione. Foucault aveva visto bene lo spostamento del razzismo. Alla crisi come stato sociale risponde l’autonomia regionale, pronta a essere assorbita dall’economia d’incastro (sharing economy). Come pensare allora la comunità nel tempo della crisi? Come portare l’autonomia al grado della comunità e riprendere questa parola d’idea o d’utopia, ben sapendo che “utopia” ha sempre significato nella sua storia antica e soprattutto moderna “idea clandestina”. Bisogna muovere dall’interiorità. Muovere da dentro. Dall’intimità. C’è un rapporto tra intimità e clandestinità.
La gioventù è l’età della forza lavoro del capitalismo esistentivo. La produzione è fugace, le imprese sono mobili, a porta girevole, tante chiudono quante altre aprono, i piani industriali sono frammentati. Si è passati negli ultimi decenni dalla fine del “posto” di lavoro al “ruolo” di lavoro, fino ad arrivare alla “persona” lavoro, giovane, pronta di riflesso a passare da una parte all’altra, sempre in formazione, che non riguarda più un’età. Nell’ideologia del long life learning era già nascosta la precarietà del capitalismo esistentivo.
I giovani sono per evoluzione in contrasto con i vecchi. La gioventù è stata sempre indicata con valore negativo da chi conserva il Potere, si è passati così dalla “gioventù bruciata” a quella “negata”, secondo mode diverse per esigenze di controllo. Così come d’altra parte la vecchiaia è stata indicata come una malattia. L’una un male, l’altra una malattia. Basta leggere Aristofane o i racconti di Luciano. Un vaso esposto al museo di Delfi raffigura un giovane che bastona un vecchio come nella prima scena di violenza dell’Arancia Meccanica di Kubrik.
La gioventù che seguì la ricostruzione del dopo guerra fu contro i vecchi del Potere, esprimendo un conflitto di generazione sul piano di un progetto sociale di alleanza delle generazioni. Era il progetto di alleanza di genere e di generazioni differenti, in questione era giusto la generatività ovvero la generazione sul piano culturale, educativo per una scuola e un lavoro non separato dalla vita. Ora, per dirla con Nietzsche, la vita stessa è diventata un problema, si è inceppata la generatività in un conflitto aperto tra generazioni sostenuto dall’ideologia della crisi come stato persistente del capitalismo esistentivo. “Questa non è una crisi” …



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