Nel suo libro più recente uno dei filosofi italiani più celebri e più rarefatti, Giorgio Agamben, fa precedere il testo da un’Avvertenza che è anche un piccolo capolavoro di metodologia. «Occorre – scrive Agamben – revocare decisamente in questione il luogo comune, secondo cui è buona regola che una ricerca cominci con una pars destruens e si concluda con una pars construens e, inoltre, che le due parti siano sostanzialmente e formalmente distinte. In una ricerca filosofica, non soltanto la pars destruens non può essere separata dalla pars construens, ma questa coincide in ogni punto senza residui con la prima» (G. Agamben, L’uso dei corpi. Homo sacer IV, 2, Neri Pozza, Vicenza 2014, p. 9). Che i filosofi siano chiamati a una pars construens è niente più che un luogo comune. E non perché essa non sia necessaria o perché un’opera ne possa fare a meno, ma perché essa è embricata con la pars destruens che l’opera filosofica porta a compimento. Direbbe Agamben che una teoria che ha sgombrato il campo dagli errori è già prassi, ha già svolto il proprio compito. Dice ancora Agamben che «L’archè che l’archeologia porta alla luce non è omogenea ai presupposti che ha neutralizzato: essa si dà integralmente soltanto nel loro cadere. La sua opera è la loro inoperosità» (ibid., corsivo mio). Certo neutralizzato è parola grossa. Forse provato, contribuito a neutralizzare. Assieme alle mille altre opere che in modo solo parzialmente convergente, o in divergenza, contribuiscono a “sgombrare il campo dagli errori”, per usare la terminologia sostanziosa di Agamben. E che costituiscono il nugolo di teorie e pensieri che si agitano come pulviscolo, la cui consistenza “reale” è difficile da afferrare ma c’è, si sedimenta. Certo non si tratta di capovolgere nuovamente i filosofi e di farli camminare sulla testa, né di affermare alcun primato della teoria a discapito di una prassi intesa come mero strumento, e neanche di stabilire una parità di incidenza tra la teoria e la prassi, tra la testa e le mani. Non è (anche) nella testa di Marx che si sviluppa il nesso inscindibile tra teoria e prassi? Ripetere la distinzione tra capitalismo, passività e teoria speculativa da un lato, proletariato, attività e teoria della prassi dall’altro non fa giustizia del côté marxista (e neanche, a essere onesti, di quello capitalistico). Marx diceva che pensare ed essere sono differenti e al contempo uniti, dialetticamente interagiscono. Certo, la prova del pudding è nel mangiarlo, e le condizioni di potere sono in stretta relazione con la questione della conoscenza. Ma teoria e prassi non si contrappongono, come vorrebbe un marxismo volgarmente materialistico (o peggio un corrivo anti-intellettualismo). Ciò che si contrappone è una buona teoria a una cattiva teoria (poi c’è anche la teoria che non è teoria, e dunque neanche prassi). Nemmeno “mondo” e “parole” si contrappongono (nella lingua ebraica davàr significa sia parola che cosa, e quando il dio del Genesi dice, fa). Insomma, l’impegno degli intellettuali per cambiare il mondo è un impegno teorico che non necessita di una traduzione immediatamente pratica (se rimaniamo ancora alla distinzione tra teoria e prassi), poiché è esso stesso pratico. Marx più Foucault, verrebbe fatto di dire.
Alla luce di tutto questo, che senso ha scrivere, come fa Paolo Ercolani sul Manifesto, che “nelle decine di volumi delle opere complete di Marx ed Engels, fatta eccezione per alcune brevi e generiche indicazioni nella Critica al programma di Gotha, non si fa men¬zione alcuna di come avrebbe dovuto essere organizzata e strutturata la società giusta con cui si intendeva sosti¬tuire il sistema di produzione capitalistico”? Smontare, decostruire, criticare, è già un’operazione teorico-pratica. Cambia – direi quasi “performativamente” – il mondo. La differenza sta nel farlo bene, farlo male o non farlo affatto (certo, poi servono anche i bastoni e le pietre). Avevano forse Marx ed Engels bisogno di stilare la lista delle cose fare? Avrebbero dovuto scrivere anche un programma politico, delle misure concrete? Il tema peraltro è vecchio. Ercolani stesso cita Lenin, ma in Italia c’è stato un ampio dibattito sull’esistenza di una teoria comunista e/o marxiana dell’estinzione dello Stato e dello svilupparsi dello Stato socialista e comunista (penso in primis ad alcuni studi di Norberto Bobbio).
Ercolani la sua lista la stila, per evitare di rassegnarsi “a una critica nonché a un’opposizione di facciata”; e chi non ci sta non è figlio di Maria («sta facendo soltanto propaganda o, peggio, vuoto e sterile intellettualismo»). Ercolani subito dopo aggiunge che questo intellettualismo sarebbe «ad uso e consumo della causa di qualche singolo e del narcisismo interessato suo e dei suoi accoliti». Non so con chi ce l’abbia, posso supporre che, avendo polemizzato con Diego Fusaro in un articolo precedente, e avendo accusato il giovane storico della filosofia dell’università di Don Verzè di non aver proposto alcuna linea d’azione nel suo ultimo libro, Ercolani ce l’avesse di nuovo con lui. Ma non è questo che mi interessa: l’articolo di Ercolani sollecita delle risposte non a lui, ma a me stesso. E allora colgo il pretesto.
In realtà però, a guardar bene la lista delle cose “urgentissime” da fare “qui e ora”, si tratta per lo più di sogni (qualcuno persino in certa misura condivisibile, almeno su un piano “emotivo”) dai quali si rischia di svegliarsi tutti sudati. Cosa vuol dire infatti «azzeramento totale dell’attuale classe dirigente dei cosiddetti partiti di sinistra. Dimissioni irrevocabili di tutti coloro che hanno svolto in questi anni ruoli politici e di dirigenza»? Glielo chiedi per favore o li prendi per le orecchie? Renzi come lo convinci? E una volta dimessisi che facciamo? Come disse Togliatti a Pajetta che gli comunicava di aver preso la prefettura di Milano nel 1947: “E ora che ve ne fate?”. Ma poi: perché? Il secondo punto delle urgentissime cose ercolaniane è «Che non ci si ripropongano più, per favore, convegni o incontri organizzati dalle solite facce della sinistra per rifondare, ricostituire, rigenerare (e Marx solo sa cos’altro) partiti e partitini senza storia e senza prospettiva alcune», salvo poi proporre, poche righe più sotto, gli “stati generali della sinistra”, che sinistramente (ops) avrebbero lo stesso nome che nel 1998 Massimo D’Alema diede all’assemblea guidata da lui medesimo al fine di creare un soggetto unico della sinistra italiana (nonché lo stesso nome di altre centinaia di iniziative di nome e intento analoghi: pure Vendola nel 2012 li ha proposti). Non vorrai escludere due padri nobili degli Stati generali della sinistra come D’Alema (che nel suo caso con gli Stati generali creò i DS) e Vendola? Intanto è sempre bene ricordare che nel frattempo qui si sta costituendo il partito unico della sinistra, del centro e della destra: tutti insieme. Continua Ercolani che occorre la «costituzione di un gruppo di uomini e donne di cultura, accomunati dall’appartenenza alla sinistra e provenienti dalle più diverse discipline (economia, filosofia, giurisprudenza etc.) con lo scopo di redigere un manifesto programmatico agile, ma radicale, dei nuovi presupposti ideologici e delle misure politiche e sociali per cui battersi, da realizzare al momento di una eventuale presa democratica del governo del Paese)». A parte che è un po’ come gli Stati generali, solo che sul pass ci dev’essere scritto “professore”, ma poi perché mai “sti uomini e donne di cultura” (che guarda caso sono davvero sempre gli stessi, e istituzionali) dovrebbero saperla più lunga? Sono da tempo convinto che se si desse il paese in mano agli ‘uomini di cultura’ con la richiesta di essere “pratici”, esso collasserebbe nel giro di un quarto d’ora. Guardate solo come hanno ridotto l’università italiana (e qui, a proposito di teoria e prassi, o meglio di predicare e razzolare, ci sarebbe parecchio da dire…). Ma al di là di questo, la proposta suona alla Asor Rosa, il quale guarda un po’ pure lui aveva partecipato agli Stati dalemiani del ‘98. Ma non dobbiamo essere per forza originali. Dobbiamo puntare all’“eventuale presa democratica del governo del Paese”. Ecco, manca un tassello. E si chiama consenso. Il piccolo dettaglio che guasta tutti i sogni di presa del potere che non includano nella dotazione dei partecipanti mazze, bastoni e pietre. E rende la “presa democratica” parecchio “eventuale”.
Ercolani “buca” proprio questo dettaglio, e ripropone un vecchio tic delle intellighenzie di sinistra, che provo a riassumere così: la sovrapposizione tra Vertreten e Darstellen. Insomma, gli intellettuali rappresentano la sinistra più in un senso estetico che in un senso politico. Più rappresentazione che rappresentanza. E mentre parlano di sinistra, parlano di se stessi in filigrana (e infatti Ercolani scrive «non ci si ripropongano», a noi). Nel frattempo, quella sinistra immaginata, sognata, fatta degli “uomini e donne di cultura” (ma chi, poi? Come si selezionano?) sta andando da un’altra parte: ora si è innamorata di Renzi, e sul palco Gennaro Migliore viene esibito come il paradigma del successo della campagna acquisti (e il “povero” deve pure recitare l’Eduardo d’‘O rraù). E un po’ si è innamorata pure dell’altro Matteo, il Salvini, quello che rappresenta più operai lui di Sel e Tsipras. Certo, si potrebbe menzionare Podemos, ma occorre notare che in Italia buona parte di quella protesta (contro l’austerità, contro il debito, contro la casta) si è incanalata nel grillismo, una cui componente è sicuramente rappresentata dal voto dei delusi di sinistra (a Bologna il 48% dei voti grillini proveniva da sinistra). E che mentre Podemos viaggia attorno al 10%, Grillo ha preso più del 25% e ora si è attestato attorno al 20.
Insomma, la sinistra va a destra o va da Grillo, e gli intellettuali sognano di avere ancora davanti praterie sconfinate di consenso da conquistare. Mentre quelli impegnati davvero in politica si sentono costretti mestamente a stare in un partito che incarna forse il gorgo della decisione, ma che di fatto davvero va a destra (emblematiche le figure di Mario Tronti o Walter Tocci, alle quali l’esame di sinisteritas darebbe comunque un esito altino). La sinistra non esiste più, o quanto meno è in grave affanno non tanto e non solo quanto alle domande e alle proposte quanto in riferimento al consenso. Se si sbaglia questa analisi, magari per difetto di teoria, si fa un grave danno. Un danno che provoca anche la forclusione del soggetto politico: l’obliterazione, il ventriloquio delle masse da parte di intellettuali che hanno perso il contatto con la ‘realtà’ (ovvero hanno un deficit teorico, è bene ripeterlo). È già successo quando in Italia i contadini andavano nelle sezioni del PCI con il cappello in mano come un Tramaglino che ossequioso porta i capponi (o come i capponi stessi). È successo quando nel mondo i movimenti dal basso sono stati interpretati dalle élite con sufficienza, venendo giudicata non sufficientemente sviluppata la loro ‘coscienza di classe’ (penso ai moti dei contadini indiani così bene analizzati dai teorici dei Subaltern studies che criticavano coloro che con tono sprezzante definivano Western marxists).
Dunque, rappresentazione versus rappresentanza, e in mezzo, infitto come un cuneo, la “disintermediazione” renziana. Di fronte a tutto questo, c’è bisogno di buona teoria, ovvero di una teoria che sia anche una buona pratica. Edward Said diceva che gli intellettuali hanno una “funzione epistemologica”: di ripensare ogni idée reçue in modo critico e nei suoi rapporti con il potere. Ti pare poco? E, aggiungo io, una sedicente “pratica” è più evanescente di ogni “teoria” che intende colpire, mentre bisogna difendere l’astrattezza della filosofia, la rarefazione della teoria, che non è onanismo intellettuale (se e solo se, beninteso, è buona teoria), ma pratica. Intendiamoci: anche una “cattiva” teoria è al contempo prassi, solo è cattiva se essa non è critica, decostruttiva. Se essa conferma o non scalfisce l’assetto dei poteri, i cardini del mondo, lo sguardo su di esso. Oppure se essa si incarna in una fetta (ma solo una fetta) di quel postmodernismo che ritiene possibile solo la parodia, il patchwork, la necrofilia, e che conduce a risultati quietisti. Ma ciò non ha niente a che fare con l’“astrattezza”, che non è inanità. L’astrattezza della filosofia bisogna difenderla perché siamo in un’epoca in cui la derisione della “torre d’avorio” fa da viatico alle proposte di sapore thatcheriano di misurazione della produttività, laddove tale misurazione (che non misura un bel nulla) ha il suo metro proprio ed esattamente nella presunta applicabilità della teoria alla cosiddetta “vita reale”. In fondo, questa cosa che la teoria deve necessariamente produrre proposte concrete “altrimenti è inutile” è una proposta neoliberista e conservatrice. Se la teoria “serve” è serva: «But if the ivory tower has always been derided for insulating itself from the so-called “real world,” that insulation seems to offer little protection from the realities of neoliberalism. The things that would seem most incommensurate with economic rationality — the rigor of our ideas and the quality of our teaching — are judged increasingly by economic standards». (Anna Shechtman, Peter Raccuglia & Susan Morrow, Foucault’s Risks, in “Los Angeles Review of Books”).