L’incertezza come timone dei diritti

«A me non capiterà mai». Sin da bambina mi stupivo di questa affermazione visto che mi capitava, ed è sempre capitato, di tutto, soprattutto ciò che avevo escluso come possibile. Sin dall’infanzia ho preso atto che la vita riserva sempre delle sorprese, in primo luogo su noi stessi e solo successivamente sugli altri.
Una delle sorprese che mi è stata riservata è l’argomentazione che da qualche tempo porto avanti nel sostenere l’estensione a tutti, proprio tutti, dei diritti civili. Non avrei mai immaginato che proprio quello che qui scrivo sarebbe uscito dalla mia persona.
Molto precocemente ho letto Agostino di Alberto Moravia, un romanzo che ha segnato in modo indelebile la modalità con cui sin dall’infanzia ho guardato alla sessualità delle persone. Per anni ho pensato che la questione si ponesse unicamente sul piano culturale, mentre oggi la posizione della necessità di diritti per ogni persona la fondo anche su aspetti di natura biologica e neuroscientifica e questo perché queste discipline ci stanno dimostrando in modo hard che siamo in ogni istante persone in divenire, che cambiano e la natura di questo cambiamento non ci è nota, e non lo è neppure per quanto riguarda la nostra sessualità e l’appartenenza di genere. Insomma “ci capita” di scoprire di essere in un modo che non immaginavamo, pensavamo di conoscerci e invece non è così. Ed è per questo che negare alcuni diritti ad altri è in potenza negare alcuni diritti a se medesimi nel nostro divenire.
Sono molto affezionata – infatti la cito sovente – a una filastrocca recitata in coro dai bambini di una scuola di campagna su insegnamento del loro maestro, proposta nel film cinese La strada di casa, che dice: « Nella vita bisogna avere degli obiettivi e lottare per raggiungerli.
Prima regola: imparare a leggere; seconda: imparare a scrivere; terza: imparare a contare; quarta: tenere un diario; quinta: conoscere il presente; sesta: conoscere il passato – perché è il solo modo per costruire il futuro -; settima: rispettare se stessi perché è l’unico modo per imparare a rispettare gli altri.».
La richiamo perché da un lato mi ricorda che i diritti nella storia dell’umanità sono sempre stati il risultato di lotte per la loro conquista e dall’altro che il punto di partenza di ogni comportamento è rivelatore del rapporto che abbiamo con noi stessi. Le cose che sosteniamo e il modo in cui le sosteniamo rivela moltissimo di questo rapporto.
Il tema dei diritti lo pongo come una questione in primo luogo del rispetto di se stessi, perché siamo costitutivamente soggetti al cambiamento, ed è il rispetto di essere in divenire che giustifica il rispetto effettivo dell’altro da noi, del diverso, dello straniero, del meno privilegiato.
La completa autonomia individuale, con il suo portato di libertà e di esercizio del libero arbitrio, e l’eguaglianza dei diritti non può di conseguenza che essere intesa come l’eguaglianza della opportunità del diritto ad avere diritti e non come una eguaglianza all’origine perché siamo diseguali all’origine e lungo il percorso della vita. L’eguaglianza non essendo un punto di partenza deve però rappresentare “il punto di arrivo”, cioè l’ideale regolativo dei processi educativi, sociali e culturali. Senza questo obiettivo le diseguaglianze si approfondiscono e prende corpo o il risentimento o la rassegnazione.
Oggi la globalizzazione non intreccia solo risorse economiche, finanziarie e naturali, ma ugualmente e sempre più culture, ideali, motivazioni all’agire, comportamenti, desideri, aspirazioni, sogni. È indubbio che le modalità espressive dipendono dalla storia e dall’antropologia dei singoli territori, ma attualmente le donne e gli uomini australiani, cinesi, giapponesi, ugandesi, mozambicani, guatemaltechi sono assai più simili di quanto lo fossero cinquant’anni or sono, pur rimanendo per educazione, aspetti culturali e relazioni sociali dissimili. E per questo la questione dei diritti è vissuta maggiormente come una questione mondiale, anche per effetto dalle informazioni a cui è possibile attingere grazie alle nuove modalità che la tecnologia offre.
La Storia con la esse maiuscola sta lì a dirci che i diritti civili, si sono sempre intrecciati con quelli politici e sociali. Per quanto riguarda il nostro paese è sufficiente rammentare che la legge sul divorzio, quella sull’autodeterminazione delle nascite, il nuovo diritto di famiglia, l’abrogazione dell’articolo 544 del codice penale che ammetteva la possibilità di estinguere il reato di violenza carnale anche ai danni di una minorenne e l’abrogazione del reato di adulterio si sono sostanziati durante un lungo periodo di crescita economica. I diritti infatti si rinforzano vicendevolmente.
Qui mi vorrei concentrare unicamente sui diritti civili legati agli aspetti sessuali, un sesso che accettiamo di definire sulla base della forma esterna che ciascuno di noi ha assunto poco dopo il concepimento, come se a una certa forma corrispondesse, o piuttosto deve corrispondere, una medesima sostanza.
È indubbio che ciascuno di noi è diverso da un altro per geni, per biologia, per percorso esperienziale e per i riverberi che questo percorso genera sulla propria e sull’altrui struttura genetico-biologica e di conseguenza sui comportamenti.
Quello che è incerto, data la nostra dinamicità evolutiva, è proprio il sesso e il genere di appartenenza, poiché il sesso e il genere in quanto tali, con la loro portata metafisica è oggi messo seriamente in dubbio.
Il lungo dibattito che ha caratterizzato la riflessione sulle omogeneità e sulle differenze sessuali sta alla base delle diverse posizioni sui diritti civili. Posizioni spesso ricche di luoghi comuni e fondate su stereotipi: le donne sono più votate ai lavori di cura; i maschi non sono interessati dalla paternità; due donne non possono educare figli propri perché i bambini hanno bisogno per crescere “sani” della figura paterna; due maschi non possono educare figli propri perché manca la figura materna e poi si sommerebbero due figure “non interessate alla paternità; non parliamo poi se si aprisse la questione del riconoscimento dei diritti all’assistenza reciproca o all’accudimento o adozione di bambini fra transgender. A queste argomentazioni si tende a rispondere che la realtà vede la presenza di questi comportamenti e che si tratta di dati di fatto che necessitano però della legittimazione normativa: la legge non può essere in ritardo rispetto alla realtà.
Nessuna delle due parti mette seriamente in discussioni il presupposto di entrambi i contendenti. Ritengo che non sia sufficiente abbracciare la posizione di Judith Butler, maestra della “performatività di genere”, che ha teorizzato al massimo livello il fatto che il corpo con cui si nasce conta poco o niente, e che quello che conta è invece il genere a cui si sceglie di appartenere. Non è per me neppure sufficiente ammettere, come la Butler ha del resto fatto smentendo in parte se stessa, l’esistenza “di un residuo materiale incontrovertibile“, cioè il corpo sessuato.
Se le differenze sessuali e di genere siano di ordine biologico o di natura educativa, culturale o sociale è una questione solo in parte aperta, poiché svolgono un ruolo i vincoli dati dal “bozzetto” che siamo all’atto del concepimento – la forma che assumiamo – ma lo sono anche le plasticità cerebrali e l’epigenetica, le quali descrivono quanto la struttura dell’individuo sia permeabile, in primo luogo dalle influenze ormonali interne e da quelle causate dall’ambiente, a partire dalla vita intrauterina, per proseguire con quella neonatale, puberale, adolescenziale e infine adulta.
Le ricerche che si riferiscono alla dicotomia uomo-donna e che da anni vengono effettuate per comprendere se i due generi abbiano corpi cerebrali identici, partono da un patrimonio genetico che vede il diverso accoppiamento cromosomico, eteromorfico (XY) per i maschi e omologo (XX) per le femmine e dimostrano che la gamma delle condizioni possibili fra il maschile e il femminile fanno venire “mal di testa” tante sono, mettendo così in discussione, alla radice, la dicotomia fondante i generi, cioè come si possa definire davvero ciò che è maschio o femmina. La faccenda diventa ancora più articolata se prendiamo in esame la relazione fra patrimonio genetico, ormoni, sistema nervoso centrale e generazione di specifici neuroni. Queste complesse interazioni possono rendere comprensibile perché nello stesso individuo possono essere presenti sfumature intermedie, non “lette” come dicotomicamente attribuibili a una donna o a un uomo, o dare conto della presenza nelle “donne” di atteggiamenti mascolini e in “uomini” di quelli femminili o del transgenderismo, dei travestiti o dei crossdressers, dei drag queens, dei drag kings, dei gay con atteggiamenti femminei, delle lesbiche con atteggiamenti mascolini, cioè di tutti coloro che vivono un’identità di genere non congruente con una forma apparente. E se la forma permane nel corso della vita, le interazioni descritte agiscono in modo tale da modificare costantemente e continuativamente in noi la definizione dei singoli parametri. Cosicché noi siamo sempre sessualmente diversi da ciò che eravamo un attimo prima e non sappiamo cosa saremo sessualmente domani.
Sesso e genere hanno quindi per molti versi il medesimo significato, poiché non c’è una netta distinzione fra il dato biologico e quello culturale, e questo risulta essere lo zoccolo della nostra incertezza oggettiva e insieme si tratta di definizioni migranti nello stesso individuo. Ed è sulla base delle risultanze descritte che emerge un paradigma che non fornisce certezze meccaniche, ma descrive un “quadro” che è definito dal processo evolutivo dell’individuo, un “quadro” mobile, in cui mutano costantemente sia le componenti del processo evolutivo stesso che il prodotto finale, l’individuo; un individuo che si presenta al concepimento come un “bozzetto”, ma che il tempo fa sì che esso sia sempre “altro” da quello che era un istante prima e dove l’individuo è il prodotto della cultura non meno che della natura.
Dal che il dualismo biologico-culturale, che ha investito in modo marcato le questioni di genere, non può che generare una nuova prospettiva, poiché anche il pensiero femminista nelle sue varie sfaccettature, si è sovente alimentato della dicotomie uomo-donna, maschio-femmina, la prima riconducibile al biologico, l’altra al culturale e per loro natura categorie normative e prescrittive e volte al controllo di chi si è e di come si è. Dal che ne deriva che una faccenda è il sesso altra è il sessismo.
È unicamente il sapere e il pensare non più in termini dicotomici che rende possibile vanificare il volto del timore, della paura, e in alcuni casi del terrore dell’ “altro” da se, e che costringe ad affrontare con responsabilità l’incertezza e la perdita del controllo su di sé e sulle relazioni sociali. E in questa direzione le ricerche scientifiche ci vengono in grande aiuto. Gli studi che provengono da discipline come la biologia evoluzionistica, la neurobiologia e l’epigenetica concorrono alla formazione di un nuovo paradigma che non permette di ricondurre in modo automatico o ai soli fattori genetico-biologici o ai soli fattori educativi, sociali e culturali chi è donna o uomo, chi è maschio o femmina, e che costringe a prendere in considerazione l’articolazione nel tempo e le espressività che a donna e uomo non appartengono in modo univoco, intrecciando anche il donna con la femmina e l’uomo con il maschio e con tutte le sfumature presenti nella realtà come transgender, gay, lesbica, ermafrodite, transessuale, ecc., e chi è ora l’uno ora l’altro, sia nell’arco della giornata che nell’arco della vita.
L’identità di genere e dei generi altri si presenta così come una faccenda multiforme, articolata, difficile da definire, potenzialmente contraddittoria e in continuo mutamento e si assiste a un arcobaleno e a un caleidoscopio di identità e a sua volta il genere e i generi altri sono performativi perché producono identità attraverso l’azione. Siamo comunque tutti figure di confine.
Ed è per questo che ogni volta che una legge, con una logica sommaria sui “diritti” dei generi, interviene “salomonicamente” a tagliare la carne viva della vita e dei suoi fondamentali il risultato è sempre molto scadente. Nel nostro paese la questione è ancora più dirimente perché è segnata dal fatto che la politica va alla ricerca costante dell’equilibrio perfetto, una mediazione a ogni costo, nel timore della perdita del consenso e della paura endemica del conflitto che la caratterizza.
Avere paesi in cui le norme garantiscono maggiormente nei propri diritti tutte le persone si creano discriminazioni fra coloro che hanno accesso a opportunità e altri che ne sono esautorati; vengono di conseguenza favoriti coloro che hanno maggiori disponibilità economiche, poiché possono permettersi di “emigrare” là dove i desideri si possono esaudire.
In un mondo di simboli e di modelli non univocamente interpretabili si tratta di far fronte a una realtà in cui l’articolazione dei comportamenti si declina in sfumature di colore, dove l’arcobaleno ne è l’archetipo di riferimento. Si tratta anche di continuare a mettere in luce le trappole delle costruzioni sociali delle identità e delle differenze nelle sue varie sfaccettature; si tratta di estirpare alla radice le logiche portatrici di normatività, che si affidano a una relazione stretta fra nómos e lógos. È la molteplicità che deve essere messa in luce, in una luce naturale, il che comporta il superamento delle dicotomie e di una presunta superiorità, di volta in volta diversamente definita, che rende possibile vanificare il volto dell’allarme, dello sgomento, dell’insicurezza proveniente dall’“altro”, dal diverso.
Possiamo soltanto auspicare di vivere in un’epoca in cui non vedremo la fine degli uomini, come è stato pronosticato, ma semmai la fine dello stereotipo di genere e delle altre categorie così come lo abbiamo conosciuto.
Norberto Bobbio aveva definito la nostra epoca come l’età dei diritti. L’opportunità del diritto ad avere diritti è fondamentalmente l’età delle lotte per i diritti, è l’età delle relazioni da costruire ed è l’istanziazione di un realismo che ingloba in sé l’incertezza e questo anche perché chi conquista diritti si carica anche dei doveri che questi instaurano, come ben sancisce l’articolo 2 della Costituzione italiana.

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