Con un’operazione che ha pochi precedenti nella storia del nostro paese, l’attuale governo, attraverso il Ministero dell’Istruzione, ha lanciato un sondaggio popolare in merito alla riforma della scuola prossima ventura, chiamata enfaticamente “La buona scuola”. C’è la possibilità, per chi lo desidera, di registrarsi al sito on line realizzato allo scopo e compilare un questionario e/o inoltrare delle proposte al governo. In questo modo si intende prevenire quella che è stata una delle critiche più spesso mosse alle riforme scolastiche precedenti (Fioroni e Gelmini, per intenderci), ovvero di venir calate sempre dall’alto, dettate da esigenze che poco hanno a che fare con chi lavora e vive nella scuola. Sembra, tuttavia, che questa iniziativa non abbia avuto il successo sperato, dato che – fonte il quotidiano La Repubblica del 29 ottobre – a 15 giorni dalla chiusura della consultazione ci sono stati 53000 questionari compilati e solo 1200 proposte. Se teniamo conto che quello della scuola è un problema, come sottolineato dalla proposta governativa, che riguarda 60 milioni di italiani questi numeri non sono certo impressionanti. Sarebbe interessante indagare quelle che sono le possibili cause di un atteggiamento così tiepido. Infatti, al di là della retorica che si spinge fino al limite del ridicolo e a volte decisamente oltre (si sprecano le ipotesi su come interpretare una delle primissime affermazioni dell’introduzione del documento programmatico, secondo la quale i ragazzi oggi hanno bisogno di una scuola che «li incoraggi a fare cose con le proprie mani nell’era digitale»), una pratica di consultazione così aperta e libera non può che essere un buon segno di democrazia partecipata.
Avanzo due rapide riflessioni, che sebbene non forniscano una risposta esauriente alla questione, mi sembra possano costituire due indicazioni per individuare alcuni punti deboli della proposta. Il primo problema, a mio avviso, risiede proprio nella definizione di buona scuola. Perché se si pensa che la buona scuola sia qualcosa che va costruito nel futuro si dà implicitamente per scontato che la scuola di adesso, se non addirittura cattiva, è perlomeno lontana dall’essere buona. La buona scuola è pensata «per essere l’avanguardia, non la retrovia del paese» (come invece è ora), per fare sì che le scuole «diventino i luoghi in cui si pensa, si sbaglia si impara» (cosa che invece ora non avviene nemmeno accidentalmente), per dare una risposta all’esigenza di «ripensare come motivare e rendere orgogliosi coloro che, ogni giorno, dentro una scuola, aiutano i nostri ragazzi a crescere» (mentre adesso devono vergognarsi di quello che fanno) per evitare «il rischio più grande, [che è] oggi, continuare a pensare in piccolo, a restare sui sentieri battuti degli ultimi decenni » (che conducono alla ovvia rovina dell’istruzione causata – si badi bene – dalla miopia di menti chiuse e limitate). È normale, a mio parere, che chi ora nella scuola ci lavora, e magari crede in quello che fa e ha fiducia nelle proprie pratiche professionali, si senta non solo poco coinvolto da questa impostazione della riforma, ma anche squalificato nelle proprie competenze da sedicenti esperti che paiono ergersi a difensori delle “magnifiche sorti e progressive” contro l’oscurantismo delle tecniche di insegnamento medievali attualmente utilizzate a scuola. Se si vuole coinvolgere qualcuno in un processo di cambiamento, non è una mossa molto astuta quella di indebolirne la posizione in modo aprioristico, mentre sarebbe più opportuno valorizzare quello che ha fatto – e fa – per mandare avanti le cose in un regime di scuola “non tanto buona”.
La seconda questione entra un po’ più nel merito dei contenuti della riforma. Dei dodici punti programmatici della riforma, solo tre riguardano effettive trasformazioni dell’attività didattica, intervenendo a modificare i piani di lavoro delle scuole, e precisamente il 9, che prevede genericamente più musica e sport nella scuola primaria e più storia dell’arte nella secondaria di secondo grado (senza specificare a discapito di quali altre materie), il 10 che spinge sullo studio delle lingue fin dai sei anni di età e sullo studio dei principi dell’economia in ogni ordine di scuola secondaria e l’11 che punta al potenziamento dell’alternanza scuola lavoro negli istituti tecnici e professionali. Gli altri riguardano soprattutto le modalità di reclutamento e formazione dei docenti, di valutazione degli stessi, la onnipresente “sburocratizzazione” e le modalità di finanziamento degli istituti. Di scuola, insomma, di scuola “in carne e ossa” ce n’è pochina. Per questo anche la prospettiva di immissione in ruolo di 150mila docenti, che è chiaramente un’ottima cosa per i precari che aspettano da anni un posto di lavoro stabile, non è destinata a suscitare un grande dibattito: chi potrebbe essere contrario o avere qualcosa da eccepire? Ecco forse il perché questa riforma non suscita il fervore popolare che il governo si augura: in realtà non c’è molto da dire sui dodici punti. Se non sei un docente (o non aspiri ad esserlo) le questioni sul reclutamento rimangono astratte e leggermente incomprensibili, così come quelle sulla progressione di carriera o l’organico funzionale, se invece sei un docente e non sei d’accordo su alcune questioni (per esempio le oscure modalità di progressione di carriera riservate ai 2/3 degli insegnanti. Perché 2/3 e non 13/17 o qualunque altra proporzione arbitraria?) sei subito bollato come “passatista”, legato a un tipo di scuola in cui si difendono solo i privilegi di persone che «pensano in piccolo» e che non vogliono partecipare a questa grande stagione di riforme che farà nascere finalmente la “buona scuola”.
Il che è un peccato, perché davvero con un po’ di maggior rispetto per il lavoro di ciascuno forse questa potrebbe essere l’occasione giusta per sperimentare una scuola magari non proprio “buona” ma almeno più partecipata e condivisa.