La domanda che dà il titolo all’intervento non è affatto provocatoria. E soprattutto non ha a che fare con elementi squisitamente estetici. Siamo tra coloro cui il cinema italiano contemporaneo interessa ancora, e ci vantiamo di non militare per gli autori contro i film popolari, per i film popolari contro il cinema politico, per il cinema politico contro la fiction, e altre amenità. Un po’ onnivori, ci interessa tutto. E siamo piacevolmente colpiti se – come è accaduto negli ultimi anni – i nostri registi hanno raccolto premi e riconoscimenti un po’ ovunque, da Venezia a Cannes, da Berlino a Locarno, raggiungendo persino l’Oscar.
Se però spostiamo l’obiettivo agli incassi ci accorgiamo che la storia narrata cambia improvvisamente di segno. Escluso Sorrentino, che ha avuto un buon riscontro in sala nel contesto del cinema d’autore, tutti gli altri film premiati sembrano essere stati ignorati non dico dal grande pubblico, ma anche da quello medio-colto. Si potrà gioire finché si vuole del fatto che un documentario (Sacro GRA, Leone d’Oro a Venezia 2013) abbia superato il milione di euro di incasso, raro per una produzione non fiction, ma – come dire – ci si accontenta di poco. Le meraviglie di Alice Rohrwacher ha ballato sulle medesime cifre, e non parliamo poi di piccole (anche eccellenti) opere recenti come Belluscone di Franco Maresco (Premio Orizzonti 2014) o Pasolini di Abel Ferrara – di regista statunitense ma DNA italianissimo – che hanno tenuto magari discrete medie sala ma pur sempre all’interno di un consumo che definire di nicchia è eufemistico.
Si dirà che non sono gli incassi a garantire la reputazione del film, e infatti – caso Zalone a parte (di sicuro interesse critico e teorico) – dei film che hanno guadagnato di più nell’ultimo anno (Un boss in salotto, Colpi di fortuna, Sotto una buona stella, Una fantastico via vai, Tutta colpa di Freud…) si può dire al massimo che hanno ricostruito un minimo di tessuto spettatoriale interessato alla commedia, garantito una tipologia di introiti medio-alti che mancava da un po’, e rafforzato un type-casting lievemente migliore del precedente, grazie a interpreti di rango come Marco Giallini o Rocco Papaleo. Non si può invece affermare che abbiano una particolare penetrazione socio-culturale. Ovviamente si tratta di impressioni empiriche, eppure di tormentoni, battute, sequenze culto, capacità di ribaltare stereotipi sociali o di costruirne di nuovi, se ne vedono davvero poche. La rivalità della televisione, di Zelig e di altri contenitori non è sufficiente a spiegarne la scarsa presa sul lungo termine, tanto è vero che il travaso dal piccolo al grande schermo è sempre difficile ed è riuscito solo a Zalone e ai Soliti Idioti, che guarda caso avevano un progetto comico solidissimo e le antenne dritte su tutti i fenomeni politici e culturali di questi anni.
Se il cinema d’autore guarda al passato con un misto di nostalgia e odio (sia La grande bellezza sia Le meraviglie sia l’irrisolto Il giovane favoloso mescolano fascinazioni per quel che fu e insofferenza per le gabbie della memoria), e la commedia raramente capta gli umori di un Paese in perenne trasformazione, ecco che il pericolo dell’irrilevanza – economica e culturale – si fa concreto, tangibile, reale.
Tuttavia, dal piccolo schermo giungono segnali interessanti, suggestivi perché sembrano fondere prospettive autoriali nuove e prodotto popolare. Gomorra televisivo, di cui tanto si è parlato, mescola il midcult Saviano, un regista di grido come Stefano Sollima, forme ritmiche e narrative di sorprendente innovazione, una pratica di scrittura industriale all’americana. Ma pensiamo anche agli adattamenti: persino un autore-autore come Saverio Costanzo ha mostrato che cosa si può fare lavorando su uno spartito molto chiuso come In Treatment e sortito (grazie a sceneggiatori in gamba e scelte di ripresa, direzione attori, montaggio) un risultato forse superiore all’originale. Insomma, incredibile dictu, dopo decenni di fiction irricevibile, qualcosa si sta muovendo, e dalla serializzazione non a caso giunge un monito all’industria “dei prototipi e della scia di imitazioni” che da troppo tempo soffoca l’imprenditoria cinematografica nazionale e, appunto, la sua rilevanza.
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