Come spesso capita con notizie folgoranti, inizialmente in prima pagina e presto scivolate nell’oblio collettivo, dopo i primi giorni di interesse e di drammatizzazione mediatica televisione e giornali hanno smesso di occuparsi delle manifestazioni studentesche a Hong Kong. Non è questa la sede per dedicarsi a un’analisi dei meccanismi di attenzione e di rimozione innescati dal mondo dell’informazione; piuttosto, può essere utile sostare un poco su alcuni temi evidenziati dagli episodi di protesta, in corso da circa tre settimane, di migliaia di giovani studenti cinesi, e su alcune analogie con le proteste avvenute nel 1989 a Pechino, in piazza Tiananmen.
La cosiddetta “Rivoluzione degli ombrelli”, che a Hong Kong ha trovato in parapioggia colorati una sorta di simbolo identitario, solleva dubbi, contraddizioni e intrecci di carattere politico e ideologico: certo è ingenuo vedere esclusivamente il “bene” rappresentato da ideali democratici e diritti civili, ignorando la pluralità anche scomposta di motivazioni e pulsioni che animano la folla di giovani, o le subliminali pressioni e rivendicazioni di carattere economico che fanno leva sull’idealismo degli studenti e se ne servono per ammantare di valori gli interessi di gruppi di potere antagonisti a Pechino. Come ha sottolineato Philip Bowring, sul South China Morning Post nel numero del 19 ottobre 2014, nella storia dello sviluppo costituzionale di Hong Kong quasi sempre l’enorme potere dei grandi gruppi commerciali ha ostacolato l’interesse pubblico. In quella sorta di città-stato, l’intreccio tra istituzioni relativamente stabili e libero mercato ha permesso una grande fioritura economica, ma non ha incentivato forme di consapevolezza politica circa il controllo esercitato dalle potenze orientali e occidentali. Fin dal lontano 1856 – quando Hong Kong era già sotto il governo britannico – le elezioni dei tredici membri del Consiglio legislativo (Legislative Council) di Hong Kong sono in qualche modo “pilotate” ed escludevano tutti coloro il cui censo non raggiungesse le 10 sterline. Oggi, nonostante il fatto che a Hong Kong la libertà di opinione goda di alcuni privilegi rispetto al territorio della Repubblica Popolare (per fare un esempio, nel 2010 circolavano liberamente i libri di Liu Xiaobo, arrestato nel 2008 dal governo cinese per incitamento alla sovversione del potere dello Stato), si ripropone in modo drammatico la tensione irrisolta che vede contrapporsi istanze di trasparenza, volontà di scegliere liberamente i propri rappresentanti, proteste contro la corruzione – questioni che già animavano gli studenti di Tiananmen venticinque anni fa – all’ideale tipicamente cinese di una armonia (he 和) che lega in modo indissolubile governo e popolo.
Tanto nella Pechino del 1989 quanto nella Hong Kong del 2014 le proteste sono iniziate con piccoli gruppi raccolti nelle strade, le cui fila si sono ingrossate nel giro di pochi giorni in risposta alla linea dura delle misure di sicurezza imposte dal governo alla polizia. In entrambi i casi la stigmatizzazione del movimento è partita dalle colonne del Renmin Ribao 人民日报 (il Quotidiano del popolo) che hanno presentato le posizioni dei manifestanti come anti-governative e lesive della prosperità del paese, contribuendo ben poco a chiarirne le motivazioni di fondo. Contro gli studenti, fin dai primi giorni delle manifestazioni, sono stati utilizzati in modo massiccio gas lacrimogeni – primo caso di impiego di gas contro manifestanti a Hong Kong, dopo il suo ritorno alla madrepatria nel 1997. Tanto nel 1989 quanto oggi, il governo ha evaso le richieste dei dimostranti, impiegando tattiche attendiste nella speranza che la folla si disperdesse in poco tempo, demotivata e frustrata.
Tuttavia la situazione odierna presenta anche fattori di grande differenza rispetto a quella di venticinque anni fa, soprattutto dal punto di vista mediatico: il governo cinese sa di essere osservato molto più di un tempo a livello globale, e nonostante i tentativi di ridurre gli spazi di condivisione favoriti dalla rete le notizie circolano in tempo reale. È difficile che i manifestanti riescano ad ottenere una risposta positiva circa i due punti essenziali che li accomunano – le dimissioni del governatore designato da Pechino, Leung Chung-yin, e una maggiore indipendenza dalle decisioni del governo centrale per le elezioni dei candidati – ma è altrettanto difficile che le proteste vengano affondate nel sangue come accadde a Tiananmen.
Un dato su cui vale la pena di riflettere è la mancata esperienza, nella storia cinese, di elezioni con una pluralità di partiti e di opzioni politiche sulla scena. Dall’Impero si è passati, attraverso le convulse fasi della Repubblica di Cina (1912-1949), alla Repubblica Popolare monopartitica: l’ideale dell’armonia, che cerca di ridurre al minimo o di soffocare sul nascere il dissenso e la rottura dell’equilibrio, si è sempre sposato con una logica dell’immanenza e del processo, logica dominante nel corso della storia cinese pur non essendo l’unica proposta dai suoi intellettuali. La nozione di “diritti umani” è tradotta in cinese con renquan 人权: accosta un primo carattere, ren, che indica l’essere umano, a un secondo, quan, che indica sia un’operazione di vaglio e misurazione, sia l’opportunità o la circostanza, ovvero una modulazione delle regole che consente loro di non irrigidirsi. I giovani studenti cinesi hanno oggi la capacità e la possibilità di saper anche prendere le distanze – quando appunto le circostanze lo richiedono – da una logica dell’armonia, puntando a ciò che si stacca dal piano dell’immanenza e punta verso un ideale, forse non immediatamente realizzabile ma comunque perseguibile. Essendo estremamente rara la purezza, nel mondo della contingenza, senz’altro motivazioni più pragmatiche, incrostazioni ideologiche, convenienze economiche e pressioni politiche surrettizie saranno pronte ad accendere certi animi; ma sarebbe un errore pensare che i giovani e meno giovani cinesi siano solo i burattini inconsapevoli di una mano invisibile che tesse le sue trame a detrimento della stabilità governativa di Pechino. Piuttosto, questi giorni di trepidazione ricordano come negli attuali scenari socio-politici sia necessario continuare a pensare e a incentivare condizioni di consapevolezza e trasparenza; e come la storia di ogni popolo si dia sempre attraverso una serie di innesti, di ibridazioni, di inculturazioni, prestiti e traduzioni di concetti ed esperienze che provengono dall’interno e dall’esterno, dal sé e dall’altro da sé.
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