L’anti-Saviano (elogiato da Saviano)

 

Il regista Francesco Munzi (Saimir, Il resto della notte) ha presentato alla 71a Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia il film Anime nere, salutato con grande favore di critica sia al Lido che sui giornali. Ne hanno scritto bene, tra gli altri, Roberto Saviano e Gad Lerner. Il primo, con un post su Facebook, ha dichiarato che «La maestria di Francesco Munzi e degli sceneggiatori Fabrizio Ruggirello e Maurizio Braucci è stata nel ricostruire un’Italia oscura, di paese, contadina, familista, che nei valori arcaici trova le regole per la guerra, regole da utilizzare altrove, nel capitalismo quotidiano. In un altrove che non è paese, che non è realtà contadina, ma che finisce per avere le sue radici lì, in Aspromonte. Terra lontana, bellissima e respingente, che non è affatto sottosviluppata, ma che al contrario alimenta politica, impresa, commercio e ricchezza, ovunque, in Olanda come a Milano. Regole semplici e feroci, che possono essere protezione del male o risorsa di bene. La Calabria come metafora di potere. Anime nere è un film necessario per guardare in volto, finalmente, ciò che sino ad ora è stato ignorato». Lerner ha invece parlato di “civilizzazione incompiuta”, paragonando la situazione di Africo descritta dal film al contesto dei tagliatori di testa dell’ISIS. Lasciando da parte questa bizzarra forma di orientalizzazione interna, ovvero di applicazione del cliché dell’arretratezza orientale così ben descritto da Edward Said al contesto meridionale italiano, i giudizi dati sul film (che, lo dico subito, non ho visto) tradiscono qualche discrasia rispetto al libro da cui il film è tratto. Come è noto, si tratta dell’omonimo libro di Gioacchino Criaco Anime nere (Rubbettino 2008). La prima e più lampante riguarda il fatto che il film narrerebbe «la ‘ndrangheta vista da vicino» (Corriere della Sera), che sarebbe un «film sulla ‘ndrangheta che s’irradia nel nostro tessuto sociale e mentale a partire dal suo nucleo d’Aspromonte calabrese» (ancora Lerner), un «viaggio nel cuore nero della ‘ndrangheta» (Coming soon), un film su «una famiglia di ‘ndrangheta radicata ad Africo» (Il lavoro culturale). Ecco, il libro non parla della ‘ndrangheta. Del resto il regista, in un’intervista, ha dichiarato che la famiglia protagonista del film «non è nemmeno di ‘ndrangheta, ma la fiancheggia» (intervista a RaiNews). Mentre l’occhiello dell’intervista parla del “nuovo Gomorra”.
Che il film lo sia (il nuovo Gomorra), non lo so. Ma il libro da cui è tratto è l’anti-Gomorra, e il suo autore è una sorta di anti-Saviano. Questo è necessariamente un male? No.
Ma proviamo a capire meglio. Il libro di Criaco indulge in quella forma di orientalizzazione di cui si parlava in precedenza, e che descrive una Calabria ctonia, arcaica, cupa, ancestrale. Si va dalla descrizione dei pastori e delle popolazioni della Locride come bestie senza dignità guidate solo dal bisogno cieco e dalla fame e il cui unico scopo è soddisfarla; la criminalità viene dipinta come unica scelta per non finire servi o morti; campeggia perfino la figura liminare della ‘magara’ (la strega) che sta fuori dal paese e che viene vista come un pericolo per la comunità. Tutta roba che basterebbe un buon testo di antropologia e demologia (mi permetto di suggerire l’ottimo Questioni italiane di Francesco Faeta) per renderla un residuato di vecchi modelli antropologici stereotipati. Ci manca solo (ma per poco, ché si parla di cavalieri spagnoli e altri topoi della mitopoietica ‘ndranghetista) che si tirino fuori Osso, Mastrosso e Carcagnosso, mentre il testo si inerpica su argomentazioni sociologiche da Scuola positiva dell’Ottocento, tenta una spiegazione secondo un’idea iper-banalizzata e perversa della lotta di classe.
Ma la questione più scottante non è questa. Il libro parla di un’associazione a delinquere che semina morte e distruzione. Ma che non è la ‘ndrangheta.
Il problema non è solo se il libro esprima una condanna di un determinato codice di valori o stile di vita o come altro vogliamo chiamarlo, persino “morale criminale”. La letteratura e le arti raccontano da sempre l’orrore. La discussione è annosa e anche un po’ oziosa: è giusto pubblicare opere così? Non rischiano di indurre (volontariamente o involontariamente) il lettore a condividere il punto di vista narrato? Qual è il rapporto tra l’autore, il narratore (che non sono la stessa cosa) e i fatti raccontati? Il compiacimento o la neutralità narrate sono condivise anche dall’autore? Un caso che ha fatto molto discutere qualche tempo fa è stato per esempio il libro di Jonathan Littell, Le benévole, tentativo di ricostruire “dall’interno” (senza giudizi “esterni”, senza prese di posizione morali da parte dell’autore) il modo di pensare di un nazista di fronte alla Shoah.
E del resto la teoria estetica da tempo immemore si interroga se l’arte risponda a principi (come l’etica o la morale) da ritenere a essa estranei oppure no. Lo dico subito: sono tra quelli che voterebbero no.
Ma tornando a noi e scendendo dalle altezze dell’estetica al libro di cui qui si discute, trovo che invece il problema sia costituito dall’intreccio tra realtà e finzione, tra biografia e narrazione. Non che non conti più il valore estetico del libro: al contrario, l’intreccio tra biografia (dell’autore) e finzione lo rende ancora più importante. Difatti qui la domanda «ma il compiacimento o la neutralità narrate sono condivise dall’autore del libro? diventa una domanda fondamentale e tragicamente pressante. Anticipo le risposte: «il libro narra vicende di fantasia; il libro non è una biografia o un’autobiografia; il libro non parla della ‘ndrangheta” e così via.
D’accordo, anche se sull’ultima eventuale risposta c’è da dire che i ‘figli dei boschi’ narrati nel libro sono a tutti gli effetti un’associazione a delinquere di stampo mafioso, un’associazione che ha come obiettivo di scalzare il predominio dei “pungiuti”, ovvero gli ‘ndranghetisti, per sostituirvi quello di un’associazione criminosa di stampo mafioso uguale e a essa antagonista. Ma prima ci chiedevamo: si può raccontare l’orrore? Aggiungiamo: è indifferente chi lo racconti (o chi lo faccia raccontare al narratore)? L’autore di Anime nere è il fratello di Pietro Criaco. Pietro Criaco era, fino al dicembre del 2008, uno dei 30 latitanti più pericolosi d’Italia. Ricercato da 11 anni, era ritenuto uno dei killer più efferati della ‘ndrina Cordì di Locri. La sua attività criminosa si svolgeva anche in Lombardia (uno dei luoghi centrali del libro, peraltro). Le imputazioni erano di associazione di stampo mafioso, violazione della legge sulle armi, estorsione e omicidio “ed altro” (Ministero dell’Interno). Condannato (in via definitiva) a 19 anni di reclusione, è ora al 41bis. Di lui il procuratore nazionale antimafia e attuale presidente del Senato Pietro Grasso disse che si trattava «un sicario del quale i pentiti raccontano che si lavava le mani nel sangue delle proprie vittime”. Giovanni Bianconi, eccellente e informatissimo giornalista, sul Corriere della Sera dice di un’intercettazione telefonica di Pietro Criaco (“il boss che baciava i cadaveri”) in cui si sente il boss dire, in preparazione di un attentato dopo un primo fallimento, «Vediamo il bazooka di cacciarlo fuori… Che gli si caccia il cuore di fuori e glielo si mangia…».
Ed eccoci al rapporto tra verità e finzione. Gioacchino Criaco ha detto di suo fratello «Pietro Criaco è un ragazzo che sicuramente è migliore della persona che viene descritta. Pietro non è mai stato accusato di un omicidio quindi l’anima, con il sangue, non se l’è mai sporcata» (sic). Ed ecco cosa scrive Gioacchino Criaco nel suo libro a proposito dei latitanti: «In genere dei bravi e sprovveduti ragazzi che i compari avevano badato a cacciare in qualche guaio, poveri cristi» (p. 18). Forse anche Pietro Criaco, del resto, dirà di essere un povero cristo, che hanno preso un abbaglio, che lui è un bravo cristiano, che la ‘ndrangheta non esiste. Insomma, repertorio. Mentre Gioacchino Criaco nel libro fa affermare al narratore che «gli sbirri incarceravano la gente prelevandola in certi ambienti nei quali le anime pure scarseggiavano. Questi avevano commesso di tutto nella loro vita, ma spesso non quello per cui erano dentro» (p. 175), affermazione condita poi con una tirata vittimistica sul pregiudizio antimeridionale dei giudici. In aggiunta, nel libro la parola ‘ndrangheta non compare mai.
Di solito, in casi come questi, l’argomento è quello del rifiuto della nemesi, ovvero l’affermazione che le colpe dei padri non devono ricadere sui figli (fratelli, mogli, cugini etc.). Giusto. Ma si può evitare la nemesi evitando di dissociarsi pubblicamente non tanto dalla pietà e dall’amore familiare, fraterno, quanto dall’orrore commesso e accertato?
Anime nere non è un libro moralistico sulla criminalità organizzata. Non è un libro di denuncia. Non è neanche il libro col quale l’autore si dissocia. Il narratore interno al testo non è Criaco. Ma i toni apologetici, indulgenti, del suo autore, le parole che mette in bocca ai protagonisti, il rapporto tra tutto ciò e la biografia di Criaco (e ciò che Gioacchino Criaco ha pubblicamente dichiarato a proposito del fratello) ci mettono di fronte a un anti-Saviano. Certo in quest’ultimo i toni moralistici e di condanna sono particolarmente accesi, fino ad averlo trasformato in una sorta di santità laica e civile della Repubblica, che su tutto ormai interviene con piglio censorio. Ma in Anime nere l’azzeramento a Milano del Partito Socialista corrotto viene visto come una iattura nelle ultime pagine del libro, così come l’io narrante pare dire «avete tolto di mezzo i calabresi e ora tenetevi quella feccia che sono gli albanesi’, l’unica giustizia riconosciuta è quella del codice ‘ndranghetista che opera prima di tutto all’interno della famiglia, l’ordine è il valore supremo a prescindere dal prezzo in termini di mezzi e sofferenze pagato per esso, l’ordine dello Stato di diritto viene denigrato a favore di un ordine basato su regole efferate di violenza e sopraffazione…
Quando venne mandata in onda la fiction Il capo dei capi forti furono le critiche per un prodotto che rischiava di diventare apologetico, di costruire un’iconografia positiva, di rendere fascinosi Riina e Provenzano. Dopo la messa in onda, in una scuola di Palermo l’allora pubblico ministero Antonio Ingroia chiese ai ragazzi chi fossero i personaggi più simpatici. La risposta fu «Totò Riina e Giuseppe Greco “Scarpuzzedda”». Ora, Il capo dei capi fu sceneggiato tra gli altri da Claudio Fava, figlio di Giuseppe Fava ammazzato dalla mafia a Catania nel 1984. Senz’altro un esito non desiderato. Ma certa letteratura, così come certa tv e certo cinema, anche con le migliori intenzioni giocano con un materiale incandescente che mette in moto insondabili reazioni umane. Persino le parole di Falcone sulla mafia nel libro con Marcelle Padovani Cose di cosa nostra hanno avuto (almeno su di me) l’effetto di incutermi una sorta di timore reverenziale, che spesso si accompagna, in chi narra l’orrore, a una sorta di compiacimento. Quando Saviano scrive di camorra è come se volesse dirci che ci sta parlando dall’inferno, nel quale lui si è calato senza paura, protetto cabalisticamente dal suo anello con sopra l’iscrizione in ebraico «La vigliaccheria è il peggiore dei valori» (una delle caratteristiche di Saviano che non mi pare siano state ancora prese in esame è il suo “machismo”, le sue pose da duro). I meridionali (come me) sanno di cosa sto parlando, e cos’è quel compiacimento.
Ma – lo abbiamo detto e lo ripetiamo – all’autore non è richiesto di dissociarsi, di denunciare, di esprimere condanne morali. Un romanzo è un romanzo. Ma è indifferente chi lo scriva?

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