Intervista per il Festival Mimesis

1. Lei è uno studioso d’estetica di tutto rispetto e giovane. Le faccio prima la domanda più scomoda una domanda renziana, direi: si occupa di fumetti perché è giovane? Il fumetto è inevitabilmente un opera per giovani?
Già da un po’ di tempo, mi pare, si è indebolita l’idea che fumetto e animazione siano forme espressive destinate esclusivamente a un pubblico giovanile, anche se in Italia – a differenza che in altri paesi, come il Giappone o la Francia, per restare in Europa – persiste l’idea che ci si occupa di fumetti solo come svago, e si vedono film di animazione solo a Natale accompagnando al cinema i bambini. La generazione di italiani nati negli anni Settanta conta oggi diversi quarantenni e trentenni che hanno continuato a leggere fumetti per passione, ma ne hanno fatto anche un oggetto di studio accademico, e hanno saputo mostrare come essi veicolino un pensiero. Nei migliori casi si può parlare, come diceva Hugo Pratt, di “letteratura disegnata”; i graphic novel che vengono presentati e discussi ai festival letterari nazionali e internazionali offrono ottimi esempi di come parola e disegno possano offrire al lettore maturo un’occasione di riflessione e approfondimento. Mi piace ricordare una frase volutamente provocatoria e, credo, solo parzialmente ironica di Umberto Eco, che nella prefazione a un volume di Pratt scriveva: “Quando ho voglia di rilassarmi leggo un saggio di Engels, se invece desidero impegnarmi leggo Corto Maltese”.

2. Manga, anime, estetica del fumetto giapponese. Lei si è occupato del dialogo con le culture orientali. È possibile un dialogo reale, una dimensione interculturale concreta o il viaggio, l’immersione e l’esperienza diretta sono imprescindibili per capire una cultura apparentemente così diversa?
Io direi che il viaggio è un’occasione di incontro e scambio interculturale importante; ma anche che lo studio e il lavoro sulle questioni interculturali sono a loro volta una forma di viaggio. Nella mia esperienza entrambi gli aspetti sono fondamentali: lo spostamento fisico, il contatto concreto con la cultura materiale di un altro paese, percepire cioè gli odori, i gusti, i suoni, i colori di altre città e popolazioni è stato ed è tuttora determinante per intraprendere e coltivare il dialogo con l’alterità; al tempo stesso il confronto con testi filosofici e letterari o con opere d’arte è un elementi necessario per non farsi catturare da facili esotismi e da fascinazioni ingenue. In un certo senso l’esercizio interculturale dovrebbe inibire la stereotipizzazione e la banalizzazione, come ogni dualismo rigido (o si studia o si viaggia; o si approfondisce la propria tradizione, o ci si dedica a conoscere le altre; o si apprezzano i classici o ci si immerge nella cultura popolare contemporanea; ecc.), integrando esperienze e forme di incontro che finiscono poi per trasformare il sé di chi si fa interrogare e inquietare dall’alterità.

3. Pur centenario, il fascino che l’Oriente esercita sull’Europa sembra sempre un po’ una moda. È così, e quando finirà?
La passione per l’esotico è probabilmente una caratteristica persistente nella psicologia umana. Il mondo orientale – spesso inteso come un tutto indistinto in cui concezioni cinesi, indiane, coreane, giapponesi si sovrappongono e si confondono nella percezione comune – ha rappresentato il “Grande Altro” nei confronti della tradizione europea, avendo sviluppato una cultura letteraria e artistica attraverso la conservazione e lo studio di testi scritti fin dall’antichità (da questo punto di vista il mondo asiatico rappresenta per l’Europa un tipo differente di alterità, rispetto a quella rappresentata dal continente africano). Già nella seconda metà dell’Ottocento, con il Giapponismo, si era diffusa la moda per l’arte dell’Estremo Oriente; nel Novecento, dal Secondo Dopoguerra, una certa insofferenza per alcuni motivi di fondo della cultura occidentale ha riattivato l’idea di poter trovare una maggiore saggezza di vita allontanandosi dal suolo su cui si è cresciuti. In questo senso l’orientalismo – visione stereotipata e ideologizzata delle culture d’Oriente – difficilmente si estinguerà una volta per tutte: avrà probabilmente altre fasi di nascondimento e nuovi periodi di moda e fulgore. Ciò che si deve chiedere agli studiosi è di incentivare una decostruzione di luoghi comuni e avvicinare le diverse realtà culturali sia con saggi specialistici sia con opere di alta divulgazione, mantenendo la consapevolezza che avvicinare l’altro non significa ridurlo al medesimo, cioè pensare di poterne liquidare l’alterità e gli aspetti perturbanti riducendolo a mero “oggetto” di un sapere.

4. Lei ha scritto anche un saggio sul terribile incidente alla centrale nucleare di Fukushima. Cosa vede un estetologo in quel terribile episodio?
Una simile questione meriterebbe un saggio a parte, e non è questa la sede per proporre analisi dettagliate o riflessioni che eccedono lo spazio a disposizione. Quello che si può dire, per cercare almeno di avviare un discorso su questo tema importante e delicato, è che sempre di più la riflessione estetica è chiamata a pensarsi anche come riflessione sul rapporto tra uomo e ambiente, tra percezione del sé e percezione della natura, intrecciandosi quindi con la dimensione etica. Non solo: per secoli il pensiero tradizionale estetico giapponese ha visto nella natura e nelle arti delle forme di contatto privilegiato con la cosiddetta “natura di Buddha” (cioè con la dimensione di salvezza e di illuminazione immanente ad ogni manifestazione della realtà), nell’era atomica è dunque impellente verificare la tenuta di una concezione simile in relazione ai disastri che la tecnologia ormai globalizzata può determinare. La bellezza di un paesaggio o di una città non investe solo argomenti estetici per architetti e designer, ma tocca scelte di ordine etico; l’attenzione all’ecosistema non è soltanto un tema urgente della politica, ma ha a che fare con forme di vita, di percezione delle cose, di cura dei fenomeni. Dal mio punto di vista, l’estetica è innervata di tutti questi aspetti, e in questo senso la tensione e l’esercizio di attenzione che mette in campo si convertono in modalità di comportamento, in modi di abitare il mondo.

5. Si dice che la vera integrazione con gli stranieri immigrati da vicino o lontano, la faranno i giovani nelle classi multicolore delle scuole italiane, andando sempre più in là nel grado d’istruzione fino all’università. Lei insegna all’università, a dei giovani, e insegna una cultura considerata giovane come quella del fumetto. In una regione dinamica come questa c’è già una generazione con una cultura comune al di là delle provenienze d’origine?
Non so se si possa parlare di una “cultura giovane”, legata per esempio al fumetto, in contrapposizione a una cultura supposta “meno giovane”, perché più tradizionale o legata ai classici del pensiero e della letteratura. La cultura è per sua stessa natura qualcosa di dinamico, non di statico, anche se spesso per pigrizia intellettuale o per retorica la si pensa come qualcosa di fisso e assolutamente definito. Tra l’altro, io non ritengo di “insegnare” alcuna cultura: la pratica filosofica – che è quella che cerco di portare avanti nella mia esperienza e di proporre a chi mi ascolta o legge i miei libri – è una pratica di parola e di scrittura che non si prefigge tanto il compito di fornire dei contenuti quanto quello di permettere l’elaborazione personale di percorsi, forme di attenzione, atteggiamenti. Ogni filosofia è un modo della verità, una scrittura della verità – non coincide mai con la verità stessa. Ora, per tornare alla questione dell’integrazione culturale e delle nuove generazioni, mi pare che inizino ad esserci molti segnali di ibridazioni e incroci positivi tra coloro che hanno oggi tra i cinque e i venticinque anni; ciò non significa però né che si tenda verso una cultura comune, in cui le differenze sono livellate e si affermano dei caratteri “medi” sintesi di diverse provenienze, né che ci si stia affacciando a un mondo in cui le diverse prospettive culturali convivono l’una accanto all’altra come pezze multicolori di un vestito di Arlecchino. Ogni cultura è sempre al tempo stesso un movimento di omogeneizzazione e di differenziazione: per questo le tensioni non sono mai sedate del tutto (questa sarebbe del resto la morte di ogni espressione culturale). Il compito difficile, ad ogni livello – pedagogico, teoretico, familiare, sociale, politico – è quello di saper cogliere volta per volta questi movimenti, saperli descrivere nella loro specificità e accompagnarli cercando di ridurne il più possibile gli attriti violenti e distruttivi, favorendo invece le spinte propositive e dialogiche tra le mille anime che costituiscono ogni comunità umana.

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