Nella riflessione su Pasolini di Ferrara, resa nell’attesa di vedere il film e pubblicata la settimana scorsa, avevamo posto l’attenzione sulla componente uniduale che caratterizza il pensiero, l’opera e la vita del poeta e regista friulano, in quanto proteso da un lato verso la luce, dall’altro verso l’oscurità; e nello stesso tempo avevamo ipotizzato come fosse proprio l’attenzione avuta da Ferrara verso la rappresentazione del lato oscuro di Pasolini, quello più cupo e demens, riprendendo il termine da Morin, ad aver orientato molti di coloro i quali hanno visto il film verso una decisa stroncatura, e molti altri, influenzati dalle critiche, dalle anticipazioni e dalle chiacchiere, verso la decisione di ignorare il film, in un rifiuto aprioristico e convinto. Le scene orgiastiche mostrate dai media, il recupero di alcuni momenti più crudi e d’impatto tratti da Petrolio, l’intento da parte di Ferrara di rappresentare non solo la morte dell’artista ma anche i suoi ultimi momenti trascorsi con Pelosi e, prima ancora, nella sua ricerca, alla guida di un’elegante Alfa Romeo, di incontri sessuali con ragazzi di borgata, sono, tutti questi, aspetti che compongono un quadro d’insieme che fa gridare allo scandalo, all’ingiuria, al mancato rispetto verso un grande artista; risultano un affastellamento di dati che inducono a ritenere che Ferrara si sia voluto soffermare in maniera eccessiva su un carattere di Pasolini scomodo e disturbante, e che, facendo questo, abbia messo in ombra quella componente spirituale, alta, pedagogica, poetica, profetica che contraddistingue l’artista italiano. In risposta a questa accusa e questo timore sottolineiamo invece come la scelta di Ferrara risulti non solo coraggiosa – non è mai facile dare luce e rappresentazione al lato nero di un grande artista amato e che lo stesso regista newyorkese dichiara e dimostra di amare –, ma anche necessaria, per comprendere in pieno la poetica di Pasolini, la sua opera, la sua vita. E nello stesso tempo riteniamo come tale operazione condotta da Ferrara rechi giustizia all’azione insurrezionale, provocatoria e accusatoria di Pasolini, il quale – come ha riportato Furio Colombo in quella celebre e ultima intervista che non a caso Ferrara decide di riproporre nei suoi momenti più importanti e più densi – ha lottato con tutti i suoi mezzi contro l’“ordine orrendo” della società capitalistica, contro il suo “perverso sistema di educazione”, proponendo azioni e pensieri che hanno composto un’immagine scomoda, “eretica” e “corsara”; un‘immagine che con fatica, sacrifici e perfino con la morte stessa, Pasolini ha voluto portare avanti e rinfacciarla al sistema, o recuperando il termine usato nell’intervista, alla “situazione”.
Mostrare il lato oscuro e scomodo dell’essere e della società era un obbligo morale per Pasolini; e se a partire dalla sua morte tale intento è stato attenuato dalla censura perbenista, da quella “scuola”, da quella “televisione” da quella “pacatezza dei vostri giornali” – usando sempre le parole di Pasolini espresse al giornalista – portatrici del pensiero conservatore, ora Ferrara, con il potere mediatico del cinema, con quella stessa arma usata dal poliedrico artista italiano, ci restituisce un’immagine più completa di Pasolini, presentandoci la sua oscurità e la sua lucentezza.
In quel confronto con Colombo, che per Ferrara diventa uno dei perni principali su cui ruota il film, investendo quel momento e quelle parole di un senso programmatico, di una testimonianza chiara e precisa del disegno e della poetica dell’artista italiano, Pasolini punta il suo dito accusatorio contro l’idea di “possedere e distruggere” che viene promossa e dilaga nella società odierna. Ed è proprio tale accusa che Pasolini muove soprattutto nelle sue ultime opere, in particolare, nel campo cinematografico, con Salò e le 120 giornate di Sodoma e con il progetto Porno-Teo-Kolossal, e, in quello letterario, con Petrolio. E non a caso sono proprio queste le opere che vengono recuperate da Ferrara e messe in rappresentazione nel suo film. Con le dure immagini di Salò si apre infatti il lavoro di Ferrara, e con il volto di Ninetto Davoli, che interpreta il ruolo di Epifanio in Porno-Teo-Kolossal, si chiude; mentre al suo interno si succedono le trasposizioni di alcuni episodi presenti in Petrolio, accompagnate da estratti tratti dalle pagine saggistiche di Pasolini.
Quello che interessa a Ferrara è il periodo in cui Pasolini, in termini emblematici, dalle colonne del «Corriere della Sera» (raccolte in Lettere luterane) abiura la sua Trilogia della vita perché riconosce come “la «realtà» dei corpi innocenti [sia] stata violata, manipolata, manomessa dal potere consumistico”, con la prevalsa della “falsa tolleranza” e “della degradazione corporea” che comporta una “suicida delusione” e un’“informe accidia”. E tutto questo, questo panorama che scorge nella situazione italiana, spinge Pasolini a confessare di nutrire un odio verso “i corpi dei nuovi giovani e ragazzi italiani” perché ormai corrotti da un’idea avvilente e malsana.
Ecco allora che quel nulla che irrompe violento in Salò e in Petrolio, e in generale nelle sue ultime opere, risulta la condizione che Pasolini riconosce presente nella società in cui vive, rappresenta quella “tragedia” costituita dal fatto che, come dichiara a Colombo, “non ci sono più esseri umani”, perché questi sono annichiliti da un’“educazione che [li] spinge nell’arena di avere tutto a tutti i costi”; ed è quel nulla contro cui si scaglia con tutte le sue forze Pasolini; quello stesso nulla provato dal protagonista di Petrolio che lo proietta dentro una “degradazione profondamente morale”, per calarsi in un “tedium vitae” che gli rende “tutto senza senso”. Nelle opere dell’ultimo Pasolini, come osserva Mario Missiroli, che ha messo in scena Orgia con Laura Betti e Alessandro Haber, “non c’è più traccia di niente, non c’è traccia d’amore, di niente”; Pasolini infatti “dà l’estrema abiezione del modello borghese” e rende tale degrado in Orgia attraverso le azioni del protagonista che “deve farsi una mignotta, deve prenderla a botte e poi deve impiccarsi alla tazza dello sciacquone del cesso”.
L’azione compiuta da Pasolini in campo artistico si muove in perfetta coerenza nella dimensione del reale; anche fuori dalla dimensione fittizia, infatti, l’artista sceglie di calarsi e scontrarsi con l’abisso. Ed è una scelta ancora più dura e coraggiosa quest’ultima, rispetto a quella intrapresa nel mondo dell’arte, che porta Pasolini da un lato a percorrere la strada di un impegno civile costante e metodico, come emerge nel film di Ferrara in cui sin dalla prima mattina si vede il regista impegnato nella lettura di quotidiani e, grazie al supporto della cugina Graziella Chiarcossi, coinvolto nella organizzazione della sua giornata composta da vari impegni, dall’altro lato ad immergersi nella realtà degradata e pericolosa, in quella realtà dove regna la “vita violenta”. Citavamo nel lavoro precedente lo “sporgersi ingenui nell’abisso” espresso nella poesia La crocifissione; ma Pasolini dimostra che quell’atto di affacciarsi è diventato sempre più un intento a saltare nel vuoto per lasciarsi immergere dall’oscurità; come dice infatti a Colombo, lui scende “nell’inferno” e questo gli permette di sapere “molte cose”, di accedere ad una conoscenza più profonda. Lo fa per conoscere e imbrattarsi di quell’idea di distruggere e possedere, per mostrare che “siamo tutti colpevoli e vittime”, per conoscere e mostrare il demens che è in noi. Lo fa perché spinto da un impulso distruttivo che è nostro, ma che non vogliamo confessare. Quell’impulso che porta Carlo, protagonista di Petrolio, in parte alter ego di Pasolini – vi sono infatti delle analogie con la sua biografia, come confessa l’autore nella lettera ad Alberto Moravia, in un passaggio recitato nel film – a degradarsi “senza limiti” lasciandosi in balia della libido di venti uomini, atto che verrà ripetuto anche dal doppio di Carlo, in una moltiplicazione di piani, soggetti, realtà, che crea una mise en abyme capace non solo, secondo quanto teorizzato da Andrè Gide, di mostrarci l’abisso dell’infinito delle copie delle copie, ma anche l’abisso a cui si riferisce Pasolini ne La crocifissione.
Quella scena di fellatio rappresentata da Ferrara verso l’inizio del film, trasponendo su schermo ciò che Carlo, in Petrolio, ha deciso di compiere con il gruppo di ragazzi di borgata, si trova ad essere confrontato con la fellatio che Pasolini compie a Pelosi verso la fine del film. Ed è in mezzo a questi due momenti – che per l’azione e per la collocazione si trovano ad essere richiamate vicendevolmente – Ferrara colloca la domanda espressa da Colombo a Pasolini: “come puoi allontanare il rischio e il pericolo?”; quel rischio e pericolo che sorge dal riconoscere che la voglia di “uccidere è forte e riguarda tutti, e non resterà per tanto tempo l’esperienza privata e rischiosa di chi […] ha toccato la vita violenta”.
A questa domanda Pasolini nel film non dà risposta, decidendo di troncare l’intervista e di realizzarla in un secondo tempo. Ma la risposta ce la fornisce Ferrara. E la propone mostrandoci eloquentemente Pasolini tra i ragazzi di vita, in macchina con Pelosi, e nella spiaggia di Ostia. E quello che desumiamo è che per Pasolini il modo per allontanare il pericolo è quello di immergersi in esso, conoscerlo, capirne la natura, registrarlo e portarlo alla luce. Anche a costo della propria vita. “Le mie esperienze le pago di persona”, dichiara infatti l’artista.
La scelta di Pasolini di entrare a contatto con l’oscurità e di dialogare con essa ad armi pari diviene allora un gesto che non solo nasce da un impulso di Tetis, figura dall’“aspetto infernale”, “miserabile”, che, come scrive Pasolini in Petrolio, fa sentire il Peso dell’essere e spinge al male e al degrado, ma sorge anche da una spinta di Polis, del lato angelico, “non-violento e didascalico” che spinge al miglioramento dell’esistenza dell’uomo e del mondo intero. La morte di Pasolini allora si ammanta di un carattere sacrificale; la sua volontà di vivere nel pericolo della realtà violenta, di scontrarsi con essa sembra sfociare infatti in una ricerca di sacrificio: sacrificio con finalità di purificazione, non di Pasolini, ma della realtà italiana; come se servisse cioè da un lato, attraverso la sua morte, a rendere pubblica, di dominio pubblico, il male che si aggroviglia e si sviluppa nella nostra realtà, e quindi a mettere in guardia in maniera indelebile del fatto “che l’inferno sta salendo”, e quindi “siamo tutti in pericolo”; dall’altro lato a smascherare il moralismo e il conformismo dell’“intelligencija moderata”, che si caratterizza proprio per questo di un’essenza “fascista”, e che occulta il lato oscuro del nostro essere. “Attraverso l’inferno raggiungere il paradiso” dice Carlo in Petrolio, modificando un verso di Shakespeare.
Per questo motivo Ferrara, nel rappresentare l’uccisione di Pasolini, non rimanda alla tesi del complotto, ma sceglie, offrendo un altro elemento di forte disappunto e accesa polemica, di mostrarci l’artista vittima consapevole e sofferta di una morte terribile, la quale risulta cercata e affrontata con spirito sacrificale, con animo religioso; aspetto che viene potenziato dalla presenza di Defoe, non solo per la sua eccelsa bravura, ma anche per il fatto che tale attore crea sì un rimando per la sua somiglianza a Pasolini, ma dall’altro canto crea un rimando metacinematografico al Salvatore de L’ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese.
Ricordavamo nel lavoro precedente l’espressione “Tutto è santo” recitata dall’alter-ego di Pasolini, il Centauro nel film Medea. Questa esclamazione ci aiuta a comprendere meglio quel carattere religioso del sacrificio di Pasolini che emerge nell’opera di Ferrara. Se infatti analizziamo quali rimandi possibili abbia la frase del Centauro, potremmo sì imbatterci in Note a Urlo di Allen Ginsberg (“Tutto è santo! Tutti sono santi! Dappertutto è santo! Tutti i giorni sono nell’eternità! Ognuno è angelo”), ma forse più vicino allo spirito di Pasolini si dimostra essere il “Tutto è santo” espresso da Casy di Furore di John Steinbeck. Questo affascinante personaggio, che svestito i panni di reverendo perché la sua vocazione è divenuta incerta ed è reo di essersi frequentemente avventurato con le donne che ascoltavano le sue prediche, vagherà in compagnia di Tom Joad e della sua famiglia, confrontandosi e toccando con mano la povertà, il disagio, il degrado e la violenza; sarà lui a confessare ai Joad di aver percepito che la natura e lui “era[no] una cosa sola. E quella cosa era santa. […] E mi sono messo a pensare ch’eravamo tutti santi quand’eravamo una cosa sola, e l’umanità era santa quand’era una cosa sola”; e sarà lui ad andare in soccorso a Tom Joad e ad addossarsi tutte le colpe sorte da uno scontro che quest’ultimo ha avuto con un vicesceriffo.
Ora, come Casy, Pasolini riconosce la sacralità del mondo esterno e l’importanza di recuperare i valori di unità e fratellanza per ritrovare nell’umanità la sua dimensione più alta; come il reverendo, entra a stretto contatto con la comunità ai margini, combatte contro la società violenta e suoi soprusi, e si immola per cercare di realizzare un cambiamento. Ed ancora, come per Casy, anche la spiritualità di Pasolini è in continua crisi, travagliata. Il personaggio di Steinbeck, infatti, alla domanda se ama il Salvatore afferma di “non conosc[ere] nessuno che si chiami Gesù” e di amare “solo quelli in carne e ossa”; mentre per Pasolini, come evidenzia Ferrera scegliendo di dare rappresentazione al Teo-Porno-Kolossal e offrendo a quest’ultimo le immagini conclusive del suo film, emerge che “il paradiso non esiste” e che la camminata di Ninetto Davoli – Riccardo Scamarcio e Eduardo De Filippo – Ninetto Davoli, lungo le scale che portano oltre la sfera terrestre, non conducono a nessuna meta. Ed inoltre il seguire la stella cometa, che doveva condurre i due personaggi alla scoperta della Natività, si è rivelata un’impresa fallimentare; “è stata una stronzata”, ammette De Filippo – Davoli.
Ma tale ricerca in realtà, come per Casy, è risultata fruttuosa perché si è dimostrata una via per la conoscenza e per una possibile salvezza; come infatti afferma il personaggio di Ninetto Davoli : “se non fosse stata ‘sta stronzata, Terra, non ti avrei conosciuto”.
Pasolini, evidenzia così Ferrara, dimostra ancora una volta, in perfetta sintonia con lo spirito moderno, di oscillare da una visione nichilista a quella spirituale, da uno stato caratterizzato dalla “razionalità” a quello contraddistinto da “una furiosa ondata irrazionalistica”, come confessa lo stesso Pasolini in una lettera al produttore Alfredo Bini. Ed è proprio questo spirito di Pasolini travagliato, uniduale, complesso, mosso dalla luce e dall’oscurità, che ha illuminato il percorso della nostra società, mostrandone i suoi mali per condurci verso un percorso di miglioramento. Ecco allora che, come conclude Scamarcio alias Davoli, “la fine non esiste”; ed è una conclusione scelta da Ferrara per il suo film come a suggerirci che non solo la nostra strada verso un cambiamento non troverà una sua conclusione, ma che anche il pensiero stesso di Pasolini non giungerà ad una fine, ma rimarrà ancora vivo e saturo di insegnamenti, di idee, di spunti che devono essere ripresi in tutta la sua totalità, disturbante che sia, per meglio illuminare il nostro percorso. E solo così a noi non resterà altro che fare tesoro del sapere offerto dall’artista italiano e, come Davoli-Scamarcio e De Filippo-Davoli aspettare, fiduciosi perché “qualcosa accadrà”.
Alla fine di tutto, però, un unico scandalo forse lo dobbiamo riconoscere; ed è il fatto che un film come quello di Ferrara, con la sua profondità e bellezza, con il suo intento di restituire forza e complessità al pensiero di Pasolini sia e sia stato oggetto di biasimi e malumori. Certo, queste critiche ci spingono a sentirci scandalizzati. Ma di questo scandalo dobbiamo imparare a provare piacere, proprio perché come ci insegna Pasolini, se non lo facessimo saremmo dei moralisti, e vorrebbe dire che poco abbiamo appreso dalle parole dell’artista italiano.
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