Le cose inutili sono quelle importanti, quelle utili sono necessarie, tanto più tali se rendono possibili quelle importanti. Chi opera di volontariato s’impegna su cose, per le quali non c’è tempo né finanziamento, non c’è cura. Cammina sul ghiaccio della indifferenza. Incontra le persone nella singolarità del loro mondo. Chi opera di volontariato tesse nodi di doni, unisce mondi differenti, genera le mappe del bene comune. Le cose utili, certo, sono necessarie, ma senza l’inutile carezza di una mano, senza la voce di una parola vera ogni certezza è un diniego e la necessità è un rifiuto della libertà. Nessuno è libero da solo. La libertà è fatta di legami. Non si scelgono mai le cose, se non per le persone che le rappresentano. Il grado di libertà di ognuno, come di un paese intero, è dato dalla qualità dei legami personali e sociali. Anche la legalità, prima che giuridica, è affettiva, “dipinta a mano”, fatta di legami. La prossimità è vicinanza. Un sentimento di nessun legame d’interesse. Non è empatia. Non sarà mettersi al posto di un altro, essere nei suoi panni. La prossimità è un legame di separazione. Essere accanto. Senza confusione. Senza compatimento.
La mia esperienza con le persone detenute è la stessa di chiunque opera di volontariato. Quando mi chiedono che cosa faccio in carcere, rispondo che ci tocchiamo. La frase suona strana. Racconto allora come da bambini c’è quel momento a scuola in cui s’impara a imparare. Non è più il dettato e la poesia da tenere a memoria. È il momento in cui la maestra spiega i nomi astratti e quelli concreti. Dice: le cose concrete sono quelle che si toccano, le cose astratte sono quelle che non si toccano. I bambini toccano tutto e sono tutt’uno con quel che li circonda, allora persi il cielo. A casa a fare i compiti su quella distinzione anche i genitori inciampano. Quando poi diranno che quella domenica, a casa dei nonni, non si tocca nulla, il bambino penserà a come sia strano l’astratto. Capirà che quella distinzione è il principio dell’educazione alla proprietà. Quello che puoi toccare è tuo, le cose degli altri non si toccano. Col tempo poi s’impara un’altra distinzione, tra le cose certe e quelle vere. Le cose certe sono quelle che si toccano, quelle vere sono le cose ci toccano. Arrivano dentro. In carcere ci diciamo cose che ci toccano. Certo e vero stanno come utile e inutile, come proprietà e prossimità. Come l’amore certo e quello vero, come il sapere che posso dire “mio”, per averlo appreso, studiato, mi è stato insegnato, ma non è per questo “di me”, va restituito. Come chi amo posso dire “mia”, non “di me”. L’amore come il sapere è un possesso senza proprietà, chi ama restituisce l’amore che l’altro suscita di dentro, toccandoci. La prossimità è la pratica della restituzione. Saper amare è starsi accanto, mantenere la separazione. Ogni legame è tale perché marca la separazione nel nodo che avvolge due singolarità. Saperla e non sentirla, la separazione, sentirla e non capirla, è stare nell’incomprensibilità del bene. Non solo il male è incomprensibile e inspiegabile come il male radicale di Kant. Anche il bene radicale è incomprensibile e inspiegabile. L’umanità di un gesto è dono della gratuità. Chi opera nel volontariato sa di nodi e doni. Ha quel che dà. Sente ritirarsi all’istante la sua mano, perché il dono è come ciò che non gli appartiene, è dell’altro, avuto altrove, una restituzione di quel che è di nessuno e per ognuno, la vita intera, semplice, pura, la vita di nessuno. Viene da dietro il mondo, reclama di esistere, viene fuori, cerca nel mondo la custodia, il suo riparo, etica è dare mondo alla vita.
Quando vedo la notte chi porta calore al barbone, chi lascia la coperta e il cibo a chi è caduto dall’altra parte del mondo, capisco che lo fa perché gli tocca, scambia la sua felicità interiore con la sofferenza dell’altro, lo rende felice prendendosi la sua sofferenza, ma come per valore la sofferenza vissuta e la felicità data non si scambiano di posto, ma si mischiano all’incontro. Il dolore è ancora amore.
La prossimità si vive addosso. Non è una misura di spazio o di tempo che possa essere calcolata con strumenti e passi, per risparmio in sostenibilità o strategia di programma. Non toglieteci anche questo, lo starci accanto, quel che ci tocca. La prossimità è l’altro che la attiva. L’improprio, il non io. È l’altro, l’altra che mi porta qui, che mi fa dire «sono qui». Senza, non sono da nessuna parte che possa dire sia vera, sarà certa come l’indicazione del tabellone delle strade di città. Io sono qui solo davanti all’altro che dice del mio dove stare, della mia posizione.
Bisogna pensarla come l’economia della volontà di vivere, come quella del desiderio che dà al bisogno la misura della qualità del suo soddisfacimento. Se non si desidera vivere, nemmeno si ha bisogno di procacciarsi da vivere. L’organizzazione del bene è l’espressione di un’economia che risponde al crimine della crisi. Deve essere chiaro il rimando delle parole. La crisi separa, recide, toglie legami, strappa da dentro la voce. L’impresa sociale di volontariato risponde al crimine della crisi che produce – questo il fine – la fine dello stato sociale. La spending review, la revisione di spesa di questi anni ha sostituito l’espressione del welfare, dello stato sociale. Lo Stato è lontano, distante. L’istituzionale e il sociale sono lontani. La misura maggiore della distanza è nella scuola lontana dalla vita sociale e da tutto quanto è “importante”, l’“inutile” e “vero”. «Questa scuola non ci tocca». La distanza è ancora maggiore quando si programma la scuola legata al mercato del lavoro. Ciò significa che nella crisi dell’economia post industriale si vuole fare della scuola una fabbrica.
Il grado di democrazia di un paese si misura dallo stato delle sue carceri e delle scuole, quando le carceri saranno scuole e quando le scuole non saranno carceri, tanto più alto sarà il livello di quel grado. Sorprende che i termini in uso sono gli stessi, sovraffollamento, evasione, dispersione … Bisogna pensare ai luoghi, bisogna studiare quel che studiava Foucault e non studiare Foucault per capire dove bisogna stare, davanti a chi e smontare ogni discorso senza ripeterne l’archeologia.
Si dice dal tempo dell’inizio del sistema di produzione della crisi che i giovani non hanno futuro. È una parola strana “futuro”, composta dal passato remoto in un participio a venire. “Futuro” è propriamente quel che racconteremo come passato di questo presente. Il fatto che questo presente manca al suo racconto. Non passa ed è irraccontabile.
Le imprese sociali, il personale e il volontariato. Sono queste imprese di prossimità che prendono il posto dello stato sociale e devono potersi moltiplicare sui territori facendo economia di comunità.
Le associazioni di volontariato rispondono ha questa esigenza, raccontano il presente personale, ma non posso sostituire il sociale senza cambiare lo stato. Senza incidere sulla legalità dei legami sociali. Tante volte mi chiedo se i “successi” di libertà e di sicurezza ottenuti in carcere con la filosofia sia poi “giusti”, se servono al controllo o al cambiamento dello stato delle carceri. Senza questa prospettiva diventano solo utili, non dismettono potere, lo rimandano.
L’economia della prossimità è il contrario di un’economia della proprietà. Non è questione di dispendio, si tratta di un’operosità diversa. Porsi qui, davanti, fuori della proprietà e fuori dalla produzione, fuori dalla formazione. L’economia della prossimità è generativa.
Lo Stato non è più Nazione. È chiamato a garantire il rapporto tra società e comunità plurali, questa la sua funzione istituzionale. Crisi si dà quando si apre distanza tra società e comunità. Il volontariato, quello che si chiama terzo settore è chiamato a mettere in rapporto società e comunità. È chiamato a istituire imprese sociali di comunità. Le associazioni di volontariato devono diventare delle comunità esse stesse, in una prossimità costante di società e comunità, senza confondere l’una con l’altra, facendosi prossime di altre imprese sociali comuni.
Il compito è di attivare una società comune in una comunità sociale. È un’economia interiore per una comunità interiore, che non si rafferma e cristallizza in poteri. La comunità è interiore, la società è esteriore. Questa corrispondenza non è mai esatta, quando lo diventa rafferma. Colma. Le colmate chiudono. La prossimità è generare. Di genere. Di generazioni. Esprime legami di separazioni. Legami di libertà. Identità singolari. Reclama diritti d’identità che esprimono il genere nella singolarità della propria eccezione. L’economia della prossimità è senza proprietà. Il suo principio è la restituzione. Bisogna restituire come dell’altro quel che si sente propriamente di sé. È la restituzione della vita. È un’economia non produttiva, perché generativa di una società comune per una comunità sociale.
Il volontariato in Italia ha sostituito non solo lo stato sociale che si è prosciugato nel corso degli anni, ma ha sostituito anche l’azione politica. La diffusione dell’associazionismo per un verso ha richiamato su un piano istituzionale dal basso come servizio non governativo ovvero non istituzionale ma sociale. Accanto a questo è rimasto il volontariato di movimento che si diffuso per luoghi e non per associazioni, identificandosi nei locali occupati piuttosto che nelle associazioni strutturate. La dimensione politica è presente e assente in un caso come nell’altro. Ne è riflesso in un senso e in un altro il tentativo ancora in atto di portare in forma di cartello elettorale le indicazioni dei movimenti. L’esigenza è nuova forma politica di partecipazione diretta. Di prossimità singolare, non eguale. Se la prossimità indica l’essere vicini ad un mondo diverso dentro quello esistente, anche la politica può chiamarsi di prossimità per una società comune di una comunità sociale perché plurale. Tante comunità sociali per una società comune.