Sono da sempre anticapitalista. Lo sono sin da bambina perché già allora mi sembrava che il mondo in cui viviamo generi troppe discriminazioni e ingiustizie e intendevo cambiarlo per migliorare la vita degli “ultimi”. Proprio per questo ho dato, per tutta la vita, importanza massima alla dimensione politica, l’ambito nel quale come cittadina mi è possibile partecipare alle decisioni e ho studiato economia nella speranza di comprendere qualcosa dei meccanismi che determinano processi e scelte nella produzione e nei consumi, scoprendo che proprio in questa sfera il ruolo centrale l’hanno le norme che la politica mette in campo o disattende.
Diego Fusaro in nome dell’anticapitalismo sembra invece spezzare il complesso filo delle relazioni che legano questi due domini della vita individuale e sociale.
Non c’è dubbio che nel tentativo di individuare le cause dello smarrimento che pervade la vita collettiva e personale di gran parte degli abitanti del pianeta, in questi anni si è assistito alla riesumazione dell’affermazione di Walter Benjamin che “il capitalismo è una religione”, assecondando così la tesi che la politica non è la vera erede moderna della teologia, come sosteneva Carl Schmitt, bensì lo è l’economia. È Paolo di Tarso che impiega in ambito teologico l’oikonomia quando riconduce il termine al significato teologico-escatologico di salvezza ed è suo il ricondurre l’hoiconomico al politico.
È innegabile che negli ultimi quarant’anni le categorie economiche si sono imposte nei fatti e nei processi comunicativi e in particolare è diventata popolare l’idea del ruolo salvifico del mercato, in quanto entità in grado di azzerare inefficienze e disfunzioni. Ma il mercato, in quanto essenza perfetta, presume proprio la netta separazione fra economia e politica.
Una disgiunzione che Fusaro ripropone disconoscendo alcuni fenomeni politici in atto che si rifanno ai valori espressi dai regimi che hanno prevalso nella prima metà del XX secolo e che fioriscono in particolare nel Nord Europa, cioè proprio nei paesi dai quali con forza e insistenza provengono le richieste di misure di austerità e che inneggiano al non intervento dello Stato nei processi economici.
Fusaro, sin dalla scelta del titolo, oltre che nell’argomentare, sembra culturalmente vincolato alla contrapposizione amico/nemico proposta da Carl Schmitt – può esserci antifascismo solo se esiste il fascismo – e da una cultura occidentale che formula il proprio pensiero con i caratteri dicotomici, tanto criticati da Jacques Derrida. “Fascismo” è indicato più come un termine nominalistico che nella sua natura, nei suoi caratteri, nei suoi valori sociali e civili. Valori che invece sono rievocati e riesumati dai movimenti politici a cui facevo riferimento e quindi il fascismo e il nazismo esistono e sono vivi qui e ora. Solo che non sono al potere e quindi fortunatamente non vediamo la drammaticità degli atti conseguenti alle loro posizioni culturali.
La necessaria dissociazione fra economia e politica è una grande narrazione, presentata come l’unica possibile e questa unicità è stata interpretata come tale per un arretramento e una strumentalizzazione delle teorie economiche dominanti da parte della politica, sia nella sua dimensione pratica che teorica. Secondo questa narrazione lo Stato si deve trasformare in meccanismo tecnico sotto la veste della gestione amministrativa e il potere politico viene esaminato in rapporto allo Stato, individuato come l’istituzione legittimata a monopolizzare la forza fisica come mezzo di potere e l’impresa capitalistica come cifra sociale di questa forza, il che consente di spiegare il successo del modello della struttura imprenditoriale, quale simbolo pervasivo di tutti gli ambiti della vita.
Fino alla metà degli anni ‘70 la scuola di Milton Friedman, grande spin doctor di questa “favola”, era fortemente minoritaria negli ambienti accademici anglosassoni, ma intessendo e sviluppando intensi rapporti con il mondo della finanza e offrendo a questo la ‘libertà di ‘mercato’ come supporto teorico per la convalida del proprio essere, si è legittimata ed espansa. E così il liberalismo da questa propugnato, in nome del suo individualismo e della sua concezione della politica come prevaricazione e violenza, ha unicamente formulato una critica della politica volta a salvaguardare gli spazi individuali di libertà.
Il complesso di queste ideologie è stato sperimentato per la prima volta nel Cile di Pinochet, ed è stato sostenuto senza cedimento alcuno da Margaret Thatcher, imitato in modo più creativo da Ronald Reagan e fatto propria dal laburista Tony Blear e poi adottato in tutti i paesi occidentali e imposto ai paesi in difficoltà economica di contenenti come l’America Latina e l’Africa. Ed è così che il pensiero economico si è fatto in qualche modo prassi politica.
L’ideologia del mercato con la conseguente tesi che la politica deve essere estromessa dalla dimensione economica ha così avvallato il dato che in molti paesi la responsabilità dei dicasteri economici è stata sempre più attribuita a ‘tecnici’ che però non appaiono affatto come ‘neutri’ rispetto al politico, ma si rivelano piuttosto portatori di una netta e chiara visione. Tecnici che vengono evocati perché l’economia si troverebbe in uno ‘stato d’eccezione’, cosicché sarebbe legittimata la sospensione della regola che fa da riscontro all’annullamento del conflitto, tanto che la forza diventa necessaria e sarebbe vitale soprattutto per le democrazie, e gli atti devono in primo luogo essere rivolti a eliminare il nemico politico interno: “il debito”, “la revisione della spesa pubblica”, “l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori”, “la burocrazia”. Le politiche di austerità richiamano infatti la politica economica autarchica, tanto propugnata proprio dal fascismo.
Così ogni forma di governo politico sembra dover forzatamente tendere a conformarsi come servizio al funzionamento del sistema tecnico-economico e della sua forma più evoluta, quella economico finanziaria, all’interno di uno spazio escatologico, il katechon, quale raffigurazione della crisi permanente.
Questo è stato possibile anche perché si è sbriciolata sia l’affidabilità della dimensione politica nella sua configurazione pratica, sia la capacità di elaborare una teoria politica, spogliata dalla sua struttura teologica, e in grado di interpretare l’attuale complessità e indicare delle linee che consentano di immaginare assetti futuri di convivenza normata, di gestione dei conflitti, di ridefinizione dei diritti e dei doveri che tengano insieme spinte territoriali e globali.
Gunner Myrdal, già negli anni ’70, proponeva un’armonia creata al posto di un’armonia prestabilita; quest’ultima propria del liberismo. Myrdal chiamava in campo la politica, l’unica legittimata a compiere scelte valoriali per la collettività, nella consapevolezza che la disciplina economica non poteva esimersi da paradigmi alle cui fondamenta stanno opzioni e scelte possibili e sovente alternative. Questo anche in nome del fatto che ‘governare’ in greco è ‘tenere il timone’ e l’economico ha la necessità di un governo, di un nocchiero che tracci percorsi, che riconosca pericoli possibili e faccia fronte a quelli imprevisti, che indichi la rotta e si impegni a percorrerla e che sappia dove andare.
Il non prendere atto della stretta relazione fra politica ed economia convalida la tesi di James O’Connor, il quale già negli anni ottanta sosteneva che alla fine appaiono egualmente valide sia la spiegazioni mainstream della crisi, sia quelle dei marxisti – alle quali Fusaro sembra rifarsi – legate alla teoria del valore, sia quelle neo o postmarxista, sia le teorie sociali e socio psicologiche come quelle avanzate da Jürgen Habermas.
John Maynard Keynes nella Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta sosteneva: «sono le idee, non gli interessi costituiti, che sono pericolose sia nel bene che nel male». Ebbene l’idea di separare l’economia dalla politica è pericolosa perché annulla la possibilità di intervento nelle decisioni da parte dei cittadini elettori-consumatori-produttori e deresponsabilizza dai propri comportamenti, generando condotte che si materializzano nell’indifferenza e nel cinismo.
La tesi che sottende alle argomentazioni di Fusaro ha un’implicazione comportamentale pesante perché non indica come si fa ad essere anticapitalisti. Solo intervenendo con decisioni politiche che mettano al centro le discriminazioni e i diritti è possibile contrastare l’autoritarismo che sottende alla gran parte delle decisioni economiche. Unicamente così si apre lo spazio della responsabilità individuale e sociale e si chiude la porta all’antipolitica, al complottismo, all’indifferenza verso il destino dell’altro e allo sguardo cinico verso l’esistenza. Tutti volti della deresponsabilizzazione dei cittadini.