Le sinistre e la sindrome da tradimento ideologico. Note terapeutiche

1. Qualche giorno fa l’ex presidente della Camera Fausto Bertinotti è tornato agli onori della cronaca per alcune affermazioni apparentemente sorprendenti. L’ex segretario di Rifondazione Comunista ha parlato della “sconfitta storica” del comunismo e dell’opportunità, per la sinistra, di ripartire dalle istanze liberali di rispetto dei diritti individuali. Queste affermazioni hanno suscitato due tipologie di commenti. Quelle che si compiacevano per l’ennesima certificazione della sconfitta della più radicale istanza di sinistra del ‘900. E quelle che si inalberavano, sdegnate, di fronte all’ennesimo “tradimento a sinistra”. Visto il ruolo pubblico defilato oggi di Bertinotti si potrebbe lasciar cadere questo “scandalo” marginale, se non fosse per il modo in cui i temi toccati si innestano in una discussione ben più pressante, ovvero il giudizio sull’attuale indirizzo politico di quello che, volens nolens, è il più grande partito di Centro-sinistra europeo, il PD.

2. Caveat: molte sono le critiche che sono, o potrebbero essere, mosse a Renzi, al PD, al governo: dallo stile nazionalpopolare, all’eccesso di annunci, alle qualità umane ed intellettuali di vari membri del governo, ecc. ecc. Di tutte queste critiche qui ci disinteresseremo. C’è una sola critica, di ordine squisitamente teorico, che ci interessa qui discutere. Questa critica corre in parallelo con l’accusa di “tradimento” rivolta alle frasi di Bertinotti. Si tratta dell’idea che posizioni liberali (attribuite a torto o a ragione al PD di Renzi) siano costitutivamente incompatibili ed estranee alla tradizione della sinistra ereditata dal PD (PCI-PDS-DS). Sui social network e nella quotidianità sono numerose le persone che si riconoscono (o si sono riconosciute) nella tradizione comunista o socialista, e che rigettano, per così dire d’istinto, la menzione stessa delle istanze liberali, come un nemico noto e liquidato d’ufficio. Le implicazioni politiche di questa avversione non vanno sottovalutate: dall’idea che vi siano sul terreno essenzialmente due squadre contrapposte, quella socialista (o comunista, o affini) e quella liberale, discendono fraintendimenti e gravi errori di valutazione.

3. Nella sua performance pubblica Bertinotti ricordava come il comunismo avesse accettato l’idea di una compressione dei diritti individuali nel nome di una causa (la prospettiva rivoluzionaria). Si tratta di una tesi fondata? Notiamo innanzitutto che, “comunismo” ha avuto storicamente significati piuttosto diversi, diversi quanto Rosa Luxemburg e Breznev, Berlinguer e Stalin, Marx e Pol Pot, ecc. Ma in ultima istanza solo due accezioni di “comunismo” possono ambire al titolo di “significati originari” del termine: il comunismo come elaborazione teorica di Marx e il comunismo come forza politica che si impone dopo la Rivoluzione d’Ottobre. Sul primo molto ci sarebbe da dire, ma nel discorso pubblico è senza dubbio la seconda accezione che si è imposta. Come forza politica il comunismo è stata la versione rivoluzionaria e belligerante del socialismo. Più precisamente: il comunismo si è imposto come forza politica rivoluzionaria sulla scorta degli esiti della Prima Guerra Mondiale, e si è imposto come potenza mondiale sulla scorta degli esiti della Seconda Guerra Mondiale. Dal primo conflitto è emerso come correttivo al drammatico fallimento dei partiti socialisti europei, che non erano riusciti ad opporsi all’ingresso in guerra. Dal secondo conflitto è emerso come la maggiore forza politica europea che si sia organizzata contro i nazifascismi. Questo atto di nascita “bellico” e “rivoluzionario” del comunismo politico ne fissò all’origine il carattere centralista e “disciplinare”, non necessario sulla scorta dell’elaborazione marxiana. Come forza rivoluzionaria, il comunismo si autointerpretò, razionalmente, come una visione che non voleva né poteva concedere troppo a voci individuali. La marginalizzazione dei diritti individuali si allentò solo con l’allontanarsi della prospettiva rivoluzionaria; questa “liberalizzazione” del comunismo può essere simbolicamente collocata intorno al 1968.

4. Che dire del “liberalismo”? Si tratta davvero intrinsecamente del nemico storico di socialismo e comunismo? In verità il liberalismo fu originariamente alleato del socialismo, e questo per una ragione teorica fondamentale: tanto il liberalismo che il socialismo rivendicano l’eguaglianza dei diritti degli uomini alla nascita. Per questa ragione essi avevano un nemico comune nell’ordinamento politico (Ancien Régime) che difendeva la distribuzione tradizionale di ricchezza e potere fondata su linee ereditarie. Il punto di frattura tra la tradizione liberale e quella socialista avvenne su di un punto specifico, ovvero la valutazione della libertà economica, che per il socialismo era un problema, per il liberalismo un diritto (uno tra gli altri accanto alla non-discriminazione etnica o razziale, al diritto di voto, alla libertà di parola, di religione, ecc.).

5. Questa contrapposizione si accentuò nella seconda metà dell’‘800, che vide un’ascesa dei tratti di laissez-faire nel liberalismo, e sfociò nel catastrofico intreccio tra competizione economica e nazionalismo che va sotto il nome di imperialismo. Tuttavia, con il primo Dopoguerra il liberalismo si allontanò progressivamente dal laissez-faire. Simultaneamente il socialismo faceva spazio all’idea della legittimità di tratti di libero mercato. Pragmaticamente persino Lenin con la NEP (Novaja Ekonomicseszkaja Polityika, 1921) ritenne opportuno introdurre elementi di mercato nel contesto post-rivoluzionario. Nel liberalismo l’idea di una limitazione della libertà economica (e della proprietà privata) emerge abbastanza presto (vedi J.S. Mill, ma già Locke), in accordo con il principio liberale che una libertà può essere esercitata nei limiti in cui non viola altri diritti. Tale posizione divenne dominante negli anni ’30 del ‘900. In quel periodo i termini “social liberalism” e (ironicamente) “neo-liberalism” vennero ad indicare nel mondo di lingua inglese le posizioni che nell’Europa continentale erano nominate senz’altro come “social-democratiche”. Si tratta delle posizioni associate al New Deal di Roosevelt e alle teorie di Keynes. Può non essere superfluo ricordare che Keynes è da tempo entrato nel Pantheon della sinistra (socialista e post-comunista) e che l’America Rooseveltiana è quel paese “capitalista” che era giunto ad imporre aliquote sul reddito (tipo Irpef) del 94% (sic). Incidentalmente, il termine “liberal” nel contesto politico americano odierno copre precisamente l’area che in Europa chiameremmo socialista o socialdemocratica.

6. Vogliamo forse concludere che l’opposizione tra liberalismo e socialismo sarebbe tutto un equivoco? Naturalmente no, ma è necessario intendere i limiti esatti delle divergenze. Lo iato più netto tra tradizione liberale e tradizione socialista si crea a partire dagli anni ’70 del XX secolo con il consolidarsi, in una frangia della cultura liberale, della tesi del mercato come potere capace di autoregolamentazione. L’idea, che ha i suoi campioni nella cosiddetta Scuola di Chicago (Milton Friedman e George Stigler in testa), è che le relazioni economiche lasciate a sé stesse siano capaci di regolarsi spontaneamente in modo ottimale. Ne discende una battaglia per la sistematica privatizzazione dei servizi e per la marginalizzazione del ruolo dello stato. Questa posizione, che radicalizza il laissez-faire di fine ‘800 è ciò che in italiano è propriamente designata dai termini liberismo (non “liberalismo”) o neo-liberismo.

7. Solo il liberismo o neo-liberismo, così definito, è tesi radicalmente opposta ed inconciliabile con istanze tradizionali socialiste e comuniste. Il termine “liberale” è tra i più ambigui e scivolosi del vocabolario politico. In assenza di precisazioni può applicarsi a Keynes e von Hayek, a John Stuart Mill e Milton Friedman, a Benedetto Croce e Augusto Pinochet. In questo senso chi usa il termine “liberale” senza specifiche (come nel refrain berlusconiano della “rivoluzione liberale”) fa un’operazione concettualmente sporca e politicamente opportunista. Al tempo stesso è importante vedere perché il “liberalismo sociale” (es. Stiglitz, Amartya Sen, ecc.) sia per moltissime finalità politiche un essenziale alleato della tradizione socialista.

8. Socialismo e “liberalismo sociale” divergono nettamente su due punti. Nella visione “escatologica”, dove il socialismo ha un’ambizione di rinnovamento morale ed antropologico nella storia, rispetto a cui il liberalismo è agnostico. Secondariamente essi divergerebbero, potenzialmente, in contesti dove si dovessero prendere decisioni di ordine rivoluzionario, cioè in contesti che venissero riconosciuti come non-riformabili nella cornice dell’ordinaria rule of law. Per il liberalismo questa condizione sarebbe difficilmente interpretabile. Inutile dire che questi due casi sono, nel contesto contemporaneo, opzioni piuttosto accademiche. Sul piano delle soluzioni economiche invece la divergenza non è di principio.

9. Cosa accade ora, se facciamo mente locale non tanto su intriganti questioni di filosofia della storia (peraltro molto care a chi scrive), quanto sul panorama reale dell’Italia contemporanea? In questo contesto, e per le decisioni che possiamo essere chiamati a prendere in questo momento storico, come dobbiamo trattare la distinzione teorica tra “sinistre” e “liberalismo” (separato dalle istanze neo-liberiste)? Qualunque presa di posizione sensata deve partire dalla realtà storica italiana. E questa realtà ci parla di un paese dove economia e società sono atavicamente permeate da sistemi relazionali familistici e paramafiosi. Di un paese dove parlare di rispetto delle regole pubbliche ha un suono patetico ed esotico. Dove il riconoscimento del merito personale è più una formula retorica che una realtà. Dove istanze etiche banali come il controllo personale sul proprio corpo e la propria riproduzione sono messe continuamente in discussione (dall’aborto, al testamento biologico, all’eterologa, ecc.). Dove parlare di laicità dello stato sembra cocciutaggine estremista. Dove l’eguaglianza delle possibilità di partenza (economiche, educative, ecc.) è così lontana da rasentare l’utopia. Ecco, se per un momento ci permettiamo di dismettere nobili rivendicazioni palingenetiche, limitandoci a guardare in faccia il paese in cui viviamo, siamo certi che le agende politiche della sinistra e del liberalismo sociale divergano fatalmente? Non dovremmo, forse, cominciar a diffidare di contrapposizioni ideologiche tra etichette sin troppo spendibili, concentrandoci sulla sostanza particolare dei problemi e delle soluzioni? Il che, per inciso, è la sola cosa che giustifichi esistenza ed essenza della politica.

 

 

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