Professor Severino, dobbiamo distinguere, secondo Lei, tra “laicità” e “laicismo”?
Da un lato, possiamo dire che c’è ben altro che la distinzione ovvia tra laicismo e laicità, così come c’è ben altro anche oltre alla laicità. Sembra che tutto sia stato risolto nel momento in cui si abbandona il fanatismo del laicismo e si imbocca la strada della “sana laicità”. La stessa Chiesa cattolica compie l’errore, ma lo compiono anche i laici, di credere che una volta lasciato da parte il laicismo si debba tenere ferma la laicità con l’atteggiamento di tolleranza delle diverse posizioni culturali e, fino a un certo punto, pratiche. Al contrario, in queste affermazioni c’è di mezzo tutta la grande cultura moderna e contemporanea che non può essere ricondotta al mero tema della laicità. La laicità è una delle figure dell’enorme fiume che porta al di fuori della tradizione occidentale e che coinvolge la scienza, le nuove istituzioni economiche, ma anche e soprattutto il pensiero filosofico nuovo. Papa Giovanni Paolo II riconduceva grandi fenomeni non solo culturali, ma anche pratici, come nazismo e comunismo, a Cartesio, riconoscendo alla filosofia la funzione motrice del concreto sviluppo dell’Occidente moderno. In un quadro del genere, la polemica così insistita della distinzione tra laicismo e laicità è un semplice episodio che riguarda importanti capitoli dell’Ottocento e del Novecento, ma che non fai conti, e qui giungiamo al punto cruciale, con l’inarrestabilità del processo che conduce al di fuori della tradizione occidentale. Dopodiché, si tratta di capire in cosa consista questa “inarrestabilità”.
Prendiamo allora il tema della filosofia (e della verità). Partiamo da un’osservazione apparentemente laterale. Alla filosofia viene rivolta, non solo dall’uomo della strada, l’obiezione di non arrivare, diversamente dalle scienze esatte, a una verità.
La stessa obiezione mossa alla filosofia si potrebbe muovere alle religioni: perché essere cristiani se ci sono tante religioni? Ma la si può muovere anche alla scienza, perché in realtà le interpretazioni di fondo del fatto scientifico divergono. Credo che l’uomo della strada ignori sia la scienza che la filosofia: dell’una e dell’altra sa quello che sente alla televisione e, da ultimo, quello che legge sui giornali. Come detto, l’obiezione in astratto si può muovere anche nei confronti delle altre forme culturali menzionate, fermo restando che è vero che l’uomo della strada “crede nella Tecnica”; questa, tra l’altro, è anche una delle mie tesi fondamentali e più ribattute. A questo riguardo possiamo dire innanzi tutto che il grandissimo Kant sbagliava quando sosteneva che la metafisica é un campo di lotte senza fine. Guardandola più da vicino, infatti, possiamo individuare una sua logica interna di sviluppo. Questa logica interna fu compresa da Hegel, ma non da Kant. Una nebulosa da lontano può essere scambiata per un insieme di nubi diverse l’una dall’altra, ma più la si avvicina più si vede un concatenamento che è proprio l’opposto di un campo di lotte senza fine.
In secondo luogo, va evidenziato che, quando parlo di filosofia, intendo quella che è in grado di detronizzare ogni altra forma culturale. E quale filosofia è in grado di fare ciò? Non la mia, la tua o la sua, ma quella verità che abita in ogni uomo. Per trovare un o il motivo per “dare ascolto” alla filosofia, in primo luogo bisognerebbe porre in questione l’idea che la filosofiastessa parli molte voci discordanti le une dalle altre. In effetti non è vero che questa discordanza sussiste. Secondariamente, la filosofia è ciò che nei miei scritti nomino “destino della verità”, che non è affatto “l’invenzione di un tale”, anche fosse Aristotele, poiché in questo caso non meriterebbe un minuto della nostra attenzione. La filosofia è piuttosto la necessità che appare là dove l’uomo della strada non è mai in grado di scendere e che l’Occidente stesso non è in grado di raggiungere, anche se questo luogo profondo ne rappresenta il fondamento. Non si tratta quindi di credere nella filosofia, ma di vedere la necessità che al fondo ognuno di noi vede ed è.
Tutto ciò si lega al tema della laicità e a uno di quelli che vengono individuati come gli elementi fondamentali che concorrono a definire tale concetto, ovvero la tolleranza. Nella prospettiva da Lei appena delineata, sembrerebbe però che l’atteggiamento più proficuo nei confronti dell’Altro non sia affatto quello riconducibile ad un’etica della tolleranza…
Il concetto di tolleranza è un concetto sociale, non c’è tolleranza verso se stessi, se non in un senso molto diverso da quello che qui stiamo usando. Ma allora, l’obiezione che normalmente si fa alle filosofie «che sono tante e in contrapposizione» è profondamente scorretta perché, specialmente da parte dell’uomo della strada, si considera assodata un’affermazione tutta da problematizzare, ovvero che esista una societas, un’affermazione problematica e quindi da fondare (che i miei scritti risolvono con La Gloria, Adelphi 2001, e Oltrepassare, Adelphi 2007). Per questo ho sostenuto che il concetto di tolleranza è di tipo sociale e richiede che esistano molteplici individui, uomini, e che in base ai loro comportamenti essi vengano interpretati in un certo modo da sé e dagli altri. Quando dico che esistono molte filosofie intendo che esistono molti uomini che la pensano diversamente gli uni dagli altri, ma anche che l’esistenza stessa dell’altro è un problema (problema che rimanetale nella “nostra” cultura). Esiste una configurazione visiva, tattile, un comportamento linguistico, che nel suo insieme fa reagire ciò che viene chiamato “me stesso” in modo da dire: ecco, questo è un uomo. Ma l’uomo non si riduce alla propria struttura “robotica”: essa è in grado di ricostruire ciò che noi vediamo, cioè quell’insieme di eventi che interpretiamo come l’“altro”, ma questo non è riducibile alle sue componenti “meccaniche”, poiché conserva in sé quell’interiorità che noi speriamo di sondare.
Allora il presupposto forte che sta alla base dell’affermazione «esistono molte filosofie una contrapposta all’altra» è l’esistenza di una societas in cui gli uomini possono parlare diversamente gli uni dagli altri. Se poi qualcuno mi obietta che in questo momento stiamo parlando e ci capiamo, bisogna rispondere che anche il volume sonoro che in questo momento si produce sia un linguaggio, che questo linguaggio sia la lingua italiana, che la lingua italiana sia la stessa che intendo parlare io: tutto questo non è che un cumulo di presupposti e di interpretazioni che si dà per scontato quando, e certo a maggior ragione tra la “gente comune”, si dice che i filosofi la pensano diversamente tra loro. L’obiezione contro la filosofia andrebbe totalmente ricostruita, perché se si è “veramente in grado” di dimostrare che gli altri esistono e che sono in disaccordo tra di loro, allora il fondamento di questa dimostrazione è messo fuori discussione e fuori discussione è anche ciò che viene dimostrato da questo fondamento. Cioè: o gli altri rimangono un presupposto – e con essi resta semplicemente presupposta anche la volontà (non la certezza, l’ovvietà o l’esperibilità che esistano gli altri e l’opposizione tra gli altri e le discordanze tra i filosofi) che essi esistano, oppure questa stessa volontà viene fondata. Ma riuscire a fondare autenticamente il dissenso altrui rispetto a ciò che lo fonda, significa, con ciò stesso, riconoscere l’insuperabilità del fondamento che riesce ad affermare l’esistenza dell’altro e del suo dissentire. A mio avviso sul tema dell’altro si naviga con eccessiva tranquillità, senza veramente comprenderne il problema. Sebbene, per citare degli esempi, Locke, l’empirismo logico, ma anche Wittgenstein, sapessero che l’altro è un problema, la questione circa l’esistenza di un tale altro sembra venire costantemente emarginata; prova ne sia che questi stessi hanno tenuto pur sempre come valida l’obiezione contro la sconclusionatezza delle filosofie.
Nell’intervento di Claudio Magris uscito per il Corriere della sera e incluso in questo libro, Lei afferma che «nella sua essenza più profonda ‘laicità’ significa ‘filosofia’». Mentre Magris sostiene che la laicità «non è un contenuto filosofico, bensì una forma mentis», Lei replica che «se questa forma non vuol essere a sua volta una fede deve diventare filosofia». Quando poi Magris riformula una delle tesi centrali del pensiero liberale, affermando che «laicità significa tolleranza, dubbio rivolto anche alle proprie certezze», Lei ribatte che questa definizione di «laicità» in realtà «la mette in questione». La ragione di ciò lascia emergere lo sfondo teoretico della sua tesi – la tesi appunto secondo la quale la laicità, nella sua essenza più profonda, significa filosofia. Lei scrive: «che la ragione vada distinta dalla fede è una certezza di Magris. Ma, allora, il ‘dubbio rivolto anche alle proprie certezze’ mette in dubbio anche quella distinzione tra ragione e fede? Se non la mette in dubbio, allora c’è un sapere che non può esser messo in dubbio – e la definizione di ‘laicità’ deve esser rivista. Se invece tutto è dubitabile, allora la ‘laicità’ diventa, nonostante le intenzioni, quello scetticismo o quel relativismo nel quale la Chiesa ritiene consistere tutta la forza del pensiero del nostro tempo (che invece ha ben altra potenza) e che quindi la Chiesa fa presto a togliersi dattorno». Dunque, l’affermazione della laicità, se non vuole essere fede, deve essere filosofia. In quanto filosofia, essa dipende da un sapere che non può essere rimesso in dubbio, senza con ciò stesso rimettere in dubbio ogni sapere e il sapere in generale. Qui riecheggia l’argomento aristotelico riguardante il “principio di non contraddizione”, il celebre elenchos: la verità del principio è tale che la sua negazione la presuppone. Qui la laicità, in quanto essenzialmente filosofia, sembra che si declini essenzialmente come negazione della fede…
Con questa domanda arriviamo a una questione su cui dibatto da tempo con gli amici cattolici. Occorrerebbe a tale proposito un discorso ampio per dimostrare che cosa significa epistéme tes aletheias, “episteme della verità”. Il bisogno fondamentale è quello di salvarsi dalla morte, che diventa lancinante quando la morte viene intesa come annientamento. Va detto che coloro i quali inventano la morte come annientamento sono i Greci, ma è proprio per questo che presso di loro ha inizio la ricerca dell’incontrovertibile. Per salvarsi dalla morte non basta la fede, occorre una salvezza che sia assolutamente indiscutibile, altrimenti l’angoscia prima o poi ritorna. Il dubbio è legato alla fede, dietro alla fede c’è il dubbio. Il bisogno di salvezza, cioè epistéme, è il rimedio che viene evocato proprio perché ad un certo momento entrano in campo le categorie del nulla e dell’angoscia, che non hanno inventato Kierkegaard, né tanto meno Heidegger, bensì i Greci. È per vincere la paura che si evoca l’incontrovertibile: un sapere che non può in nessun senso essere smentito, contro cui non ci si può rivolgere. Sebbene in seguito sia affiorato il problema di quale sia questo sapere che non può essere smentito, la genialità consiste nell’invenzione del concetto di un “sapere incontrovertibile”, un sapere che nessun monarca, dio, potente, come nessun cambiamento di tempo, di civiltà, di costumi possa mettere in questione o rendere relativo, e che é invece “in ogni senso”, “assolutamente”. Dice Aristotele: Ouk endeketai allos eke, «non è possibile che stia altrimenti», «in nessun modo». Se ciò lo chiamiamo “l’incontrovertibile”, allora ogni altro sapere é contro-vertibile – non c’è medio, non c’è un qualche cosa che sia più o meno vicino all’incontrovertibile. Per quanto possano essere distanti tra loro il più razionale dei discorsi e la più sconclusionata delle fedi all’interno della nostra cultura entrambi, rispetto all’incontrovertibile, sono controvertibili e quindi stanno alla stessa distanza rispetto a quell’infinità del distanziarsi che determina il costituirsi dell’incontrovertibile. Tra i contraddittori, e questo Aristotele lo sapeva molto bene, non c’è medio; allora, che cos’è tutto ciò che non è l’incontrovertibile? È ciò che in un modo o nell’altro, all’interno di certi parametri, può essere negato. Se lo si afferma si è nella fede.
Questo non vuol dire che esista un unico tipo di fede, anzi, vuol dire che esistono infiniti tipi di fede: la fede scientifica, la fede religiosa, la fede in cui consiste la logica, la fede in cui consiste la politica, l’economia, l’amore, l’odio… L’incontrovertibile è precisamente ciò che è l’elenchos, la negazione della propria negazione e di tutto ciò che non è l’incontrovertibile, poiché può essere negato qualora sia tenuto fermo all’interno di una condizione.
Come risponde all’obiezione secondo la quale è fede anche quella rivolta all’incontrovertibile? La filosofia ridotta a fede.
Questa fede sarebbe innanzitutto una fede, e dunque un controvertibile. Sarebbe una fede specifica, articolata, ma pur sempre una fede. Per di più, questa fede nel raggiungimento dell’incontrovertibile ha sempre caratterizzato la storia della nostra civiltà, a partire dal mito della caverna di Platone, tutto basato sulla fede che l’uomo possa uscire dalla caverna e raggiungere, appunto, l’incontrovertibile. Anche la «fenomenologia dello spirito» di Hegel è una fede che, a partire dalla percezione immediata, arriva al sapere assoluto. Ma questa fede non è affatto un inconnu, bensì è una realtà che ha un ampio credito e ha i suoi riflessi anche nell’epoca contemporanea. Quando Popper sostiene, ad esempio, che noi ci avviciniamo indefinitamente alla verità, egli afferma la fede di poter arrivare, nel cammino, alla verità. L’immagine del viandante che ne deriva ha una particolare credibilità e suggestione, ma è anche totalmente infondata, perché sia il mito della caverna, sia la fenomenologia, sia il viandante, sia l’avvicinamento presuppongono la strada, ilpercorso che dalla non-verità conduce alla verità. Ma è impossibile che la non-verità faccia aprire la porta della verità.
Il punto da tener fermo è che tutto ciò che noi possiamo elaborare all’interno della fede nella possibilità di giungere all’incontrovertibile è controvertibile. Quindi percorrendo questa fede camminiamo nella non-verità, il cammino nella non-verità però non può avere come sbocco, conclusione, l’apertura della verità. Contrariamente al senso evangelico, la verità è proprio una porta bussando alla quale non sarà aperto. È per questo, che sostengo che la verità non è ciò cui si arriva, bensì qualcosa che sta già da sempre al fondo di ognuno di noi: altrimenti non sarebbe possibile “giungervi”.
Claudio Magris ha scritto che «la sentenza evangelica del dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio è un ‘principio laico’». Ora questa sentenza potrebbe prendersi come la benedizione niente meno che della distinzione tra Stato e Chiesa, quindi come l’espressione della laicità moderna. Questo concetto di laicità è però effettivamente plausibile? Lei scrive «Si tratta di capire che, per Gesù, dando a Cesare quel che gli spetta non gli si può dare tuttavia qualcosa che sia contro Dio (Gesù non può pensare una cosa del genere); e che, per i Romani (e per molte altre concezioni dello Stato), dando a Dio quel che a sua volta gli spetta non gli si può dare qualcosa che sia contro Cesare (nemmeno lo Stato, Cesare, potrebbe pensare una cosa del genere)». A partire da questo argomento, «le conseguenze sono notevoli e tutt’altro che ‘laiche’». Infatti, «nella logica evangelica, le leggi dello Stato non possono contrastare le leggi di Dio. Devono essere cioè leggi cristiane. Lo Stato deve essere cristiano. Il peccato è anche delitto. Non può esserci una zona ‘neutra’ dove le leggi siano indifferenti rispetto alle leggi di Dio. Teocrazia; non ‘laicità’. Nella logica di Cesare, le leggi di Dio non possono contrastare le leggi di Cesare. Devono essere leggi statali. La religione deve essere controllata dallo Stato. Il vero peccato non è quello punito da un Dio che sta nei cieli: è il delitto punito dallo Stato. Assolutismo, totalitarismo politico; non ‘laicità’». In conclusione, allora, non può darsi, almeno nella prospettiva così delineata, alcuna autonomia dello Stato rispetto alla Chiesa e viceversa: da un lato si affaccia l’ombra della teocrazia, dall’altro lo spettro dell’assolutismo, del totalitarismo. La questione che si presenta è quindi la seguente: se non esiste una “zona neutra”, appunto un intermedio, rispetto a Dio e a Cesare, non dovrebbe esistere neanche rispetto alla filosofia. In fondo, l’argomento che esclude che si possa distinguere tra Cesare e Dio è quello stesso con cui coincide la filosofia. Ma in questo scenario non si è davanti a una radicale destituzione della laicità?
Ho sostenuto che tutto ciò che non è incontrovertibile è fede, dunque non c’è medio. Non c’è un intermedio, come tra bianco e non bianco non c’è qualcosa che sia né bianco né non bianco, quindi non c’è una “zona neutra”, se con questa espressione si intende “intermedio”. Sia lo Stato che la Chiesa appartengono infatti a ciò che precedentemente ho nominato come “controvertibile”, quindi si tratta di una contrapposizione all’interno della fede. È una fede sia quella dello Stato che quella della Chiesa, ma anche quella della stessa democrazia, che infatti prima elencavo tra le forme del controvertibile.
Una parentesi: non è una verità assoluta che si debba credere nella democrazia, poiché la democrazia stessa è una fede. Ancora, se si crede nella metafisica della democrazia, nella metafisica dell’individuo, della coscienza, della contrapposizione tra coscienza, dogma esterno e auctoritas, se si crede in tutta questa grande tradizione metafisica, allora certamente bisogna dire che le leggi devono essere fatte tenendo conto di una coscienza individuale e non di un dogma esterno che si impone, ma sempre con la coscienza di stare muovendosi all’interno di una fede, che troppo spesso dimentica di essere tale.
Perché, allora, se non c’è un medio tra filosofia e fede è, invece, un problema che ci sia, ammesso e non concesso, un medio tra Stato e Chiesa? C’è una laicità che è una fede, che non puòessere la laicità della quale invece dico che è vera ed è filosofia, ovvero ciò che non è opinione di quelli che si scontrano, ma il destino della verità. Non c’è sovrapposizione tra Stato e Chiesa, ma piuttosto una contraddittorietà della Chiesa la quale, affermando che l’episodio di Cesare e di Dio è un esempio sfolgorante della accettazione dei diritti della laicità, in realtà propone un’affermazione in toto teocratica. Questo non è laicismo, se per laicismo si intende quel che dice Magris.
In realtà il laicismo era possibile, per esempio in Unione Sovietica, là dove si affermava quella fede che distruggeva le Chiese e metteva in segregazione il clero: ma questo laicismo era, di nuovo, un’altra forma di fede. Non intendo dare ragione allo Stato contro la Chiesa. Sto dicendo che l’argomento della Chiesa non sta in piedi, ma questo non significa che lo Stato laico abbia ragione. Lo Stato laico è un’altra forma di fede, che prevale in certi settori della nostra civiltà. Nel mondo anglosassone, ad esempio, non c’è una Chiesa che produce i problemi che abbiamo in Italia. Ma non intendo con ciò dire che lo Stato laico è il modello che bisogna tenere fermo di contro agli errori della Chiesa. Parlavo piuttosto degli errori della Chiesa. Se c’è qualcuno che assume il medesimo argomento in favore dello Stato, ebbene con ciò stesso egli compie il medesimo errore della Chiesa. L’argomento è stato prodotto nel Vangelo: se c’è qualcuno che lo assume come presupposto del laicismo, l’errore persiste, per lo stesso motivo per il quale erra la Chiesa. In ultima istanza, Stato e Chiesa sono due fedi. Contrastanti, ma che appartengono all’universo dei controvertibili.
Non tutte le fedi sono però uguali tra loro. Alcune possono adattarsi meglio alle esigenze della volontà di potenza propria del destino dell’Occidente.
Sicuramente. Lo scontro tra le fedi ha una natura estremamente complessa. Vi sono le fedi che costituiscono la storia dell’epistéme (poiché l’epistéme, pur essendo la volontà dell’incontrovertibile, da ultimo si rivela come una forma di fede); c’è la fede che costituisce la critica all’epistéme (che è la fede in cui consiste la modernità) e, in terzo luogo, c’è la fede che si trova al culmine della volontà di potenza, che consiste nel voler far diventare altro gli enti, la Tecnica. Quindi, certamente è giusto sostenere che Stato e Chiesa sono due fedi, ma c’è anche una forma di “selezione naturale” per cui tra le fedi, intese come volontà di potenza, si creano distinzioni di potenza, per cui quelle meno potenti si lasciano soppiantare dalle più potenti, e questo in base al fatto, che qui ci limitiamo soltanto ad accennare, che il culmine della fede dell’Occidente e la potenza vincente è la Tecnica. Sostengo infatti l’argomento per cui tutte le precedenti forme di fede e di volontà di potenza che intendano servirsi della Tecnica, essendo concorrenziali, sono costrette a potenziare lo strumento che dovrebbe realizzare i loro scopi, in modo tale che lo scopo diviene il potenziamento dello strumento e non lo scopo che tale strumento dovrebbe realizzare.
* L’intervista è di Luca Taddio e Giovanni Perazzoli a cura di Silvia Capodivacca. Questo testo è ripreso da: G. Miligi, G. Perazzoli (a cura di), Laicità e filosofia, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2010, pp. 53-64.
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