Progenitori di pietra, Figli che a ritroso trapassano nei Padri, interni abitati dai Fantasmi della Memoria e dell’Oblio. E ancora: enigmatiche sculture-monili, antichità redivive e acrobatici “pensatori di buchi” da cui, quantomeno così si suppone, si riversa via da noi la Tradizione.
Il dilemma “che fare?” è divenuto ricorrente nell’arte italiana contemporanea. Per quanto implicito, costituisce il tema cruciale. Per dargli forza occorrerebbe tuttavia trarlo fuori dai regni del Non Detto e del Preterintenzionale e discuterlo in tutta la vastità delle sue implicazioni.
«Ho pensato alle strane forze che ci legano, a quelle cose che non sappiamo se siamo noi o cos’altro; revenants, forze, spettri?», annota Piero Manzoni poco più che ventenne nel suo Diario. A distanza di qualche anno Pascali definisce “bolle” le sue Sculture bianche: lamenta lo scarso radicamento della propria attività. Alla sua immaginazione le candide forme di animali decapitati o preistorici si mostrano ancora come “revenants”. Analoghi sentimenti di separatezza si ripresentano oggi. A scongiurarli non bastano lodevoli intenzioni.
A mo’ di genealogia
Nel 1968 Giulio Paolini rende omaggio alla propria comunità di amici, maestri e mentori nell’Autoritratto con il Doganiere. Immagina una scena vivace e partecipata e la arricchisce di dettaglio sul modello della copertina dell’ottavo album dei Beatles, Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band. Poco dopo questa comunità si dissolve. L’artista non proporrà più gaie immagini collettive, ma elegiache memorie dell’Antico. Cercherà così, attraverso l’ossessiva pratica della citazione, di elaborare il lutto per la perdita di una madrelingua.
Nello stesso anno Mario Merz affida all’installazione Solitario, solidale un dubbio amletico: quali rapporti stabilire tra l’esigenza di solitudine e il desiderio di partecipazione? Possiamo leggere in due modi l’alternativa: come inclusiva (“vel… vel”) o disgiuntiva (“aut… aut”). Se assumiamo che il senso dell’alternativa sia inclusivo questo implica che l’artista, per Merz, può essere allo stesso tempo “solitario” e “solidale”: riuscirà dunque, quasi per magia, a trovare immagini capaci di interpretare passioni collettive (è questa la posizione di Merz nel 1968). Ma è pure possibile stabilire una disgiunzione radicale: in questo caso l’artista è costretto a scegliere tra “solitudine” e “solidarietà”. La storia italiana dei decenni successivi non ha sciolto il dilemma: tuttavia ha cospirato in favore dell’aut aut.
Come “abitare” un contesto nazionale o postnazionale e creare immagini-simbolo di un compito e un destino condiviso? E’ significativo che nell’arte italiana degli ultimi due decenni, direi dalla Nona ora di Cattelan (1999), non troviamo credibili messe a nudo di propositi di riscatto o esperienze di vulnerabilità collettiva. Dietro opere ben fatte non percepiamo città, classi sociali, generazioni, comunità ideologiche o affettive. L’atteggiamento di risoluto solipsismo non aiuta.
Dalla biografia di un’artista milanese di ampia notorietà internazionale apprendiamo che questa stessa artista risiede tra Anchorage, Londra e Alicudi, senza dimenticare i soggiorni a Shangai. Dietro alla spacconeria di chi modella il proprio avatar a imitazione di aziende multinazionali, assimilandosi di buon grado a un “prodotto” industriale o finanziario, non c’è forse il rifiuto subalterno della propria identità infantile e vernacolare? Un’automutilazione volontaria del Sé in ossequio alle estetiche (o alle biopolitiche) del capitale? Prendo spunto dalla circostanza per considerazioni di più ampia portata.
Quale cosmopolitismo?
La riproposizione di fantasie di onnipotenza infantile predestina all’irrilevanza culturale e sociale. Questa, in sintesi, la sorte di buona parte dell’arte italiana contemporanea. Il rifiuto dell’appartenenza è irreale: toglie all’immaginazione la sua più salda risorsa.
Il cosmopolitismo di cui abbiamo bisogno non è sprovvisto di storia o memoria. Non intendo qui esprimere una condanna quanto dischiudere un orizzonte di reminiscenza collettiva. Dovremmo forse interrogarci su ciò che ci accomuna. E provare pietà per il nostro torturato desiderio di istituzioni soccorrevoli e capaci. L’atto creativo oltrepassa la ferita narcisistica: ha a che fare con l’invenzione di una genealogia e autoimmaginazioni di futuro. Chi si interesserà a noi se noi per primi distogliamo lo sguardo da ciò che siamo e diventiamo?
Il mio punto di vista è psicologico, non patriottico. Mi propongo di riflettere sul costo delle finzioni di irrelatezza. Emozioni come ira, vergogna o indignazione, se disattese, possono imprigionare l’immaginazione costringendola a oscillare tra gli estremi dell’esterofilia e della recriminazione; e separarla artificiosamente dal mondo della vita, delle fantasie potenti, delle azioni reali e condivise.
Precarietà e espatrio sono le esperienze che distinguono storicamente l’attuale generazione dei trenta-quarantenni. Ne cercheremmo però invano tracce figurative. Perché? Procurare fantasiosi intrattenimenti all’1% non esaurisce i compiti dell’arte. Gli artisti tedeschi del periodo di Weimar scelsero di commentare la disuguaglianza nelle loro opere. Un eccesso di levigatezza in tempi difficili equivale invece a una censura introiettata.
Una parte del problema è riconducibile ai modi di reclutamento e all’attuale processo di costruzione delle carriere: la mia tesi è che essi producano un pernicioso distacco dall’esperienza individuale, specie se subalterna. Istituzioni pubbliche e private incoraggiano percorsi formativi chiusi e curricula bloccati. Sul modello di un qualsiasi corpo burocratico, l’avanzamento professionale di un giovane artista oggi in Italia è severamente regolamentato e promuove riconoscibilità e “coerenza”.
Talenti in formazione sono avviati a una professionalità intesa in senso formalistico e deconflittuale, definita in base a standard generici, pronta a collocarsi sul mercato internazionale. L’esordio può essere precoce e così una remunerativa reputazione. Difficile tuttavia immaginare che da coorti di nerd meticolosi e prudenti possa scaturire innovazione.
Sfera pubblica e karaoke
In mancanza di una più chiara definizione della propria “comunità immaginata” l’attuale interesse dei trenta-quarantenni per storia e politica è poco più che moda o gioco: non ha necessità condivisa né produce catarsi tragica. Sprovviste di distanza prospettica, di motivati criteri di scelta e adeguati metodi di indagine, le rievocazioni degli “anni di piombo” o del sequestro Moro rischiano di sembrare un contributo in chiave Italian Theory all’industria nazionale del folklore; o (peggio) sciagurate versioni edipiche del karaoke.
Come venir fuori da decenni di postmoderno pre-politico, di appropriazionismo autoreferenziale? La demagogia non è la risposta. Gli artisti non sono (né sono tenuti a fare gli) attivisti, ed è irritante vedere le pratiche dell’attivismo ridotte a ornamento di gallerie e musei. La teoria femminista contemporanea suggerisce modi persuasivi di abitare luoghi, comunità e istituzioni; modi che possono essere conflittuali ma non privi di riconoscimento dell’importanza dei legami storici e affettivi.
La dedizione al lavoro è un requisito importante per un artista, come pure la disponibilità a riflettere sulle implicazioni più ampie e generali della propria attività. Ma in tempi recenti in Italia “compulsività artigianale” (la citazione è da Richard Sennett) e sensibilità politica e sociale sono diventate reciprocamente estranee l’una all’altra. Questo divorzio ha sicuramente a che fare con il modo in cui siamo percepiti in ambito internazionale. Abbiamo eccellenti “artigiani compulsivi” che lavorano sulla dimensione dell’inattualità e confusi agit-prop della “partecipazione”. Non sarebbe male mediare.
Ci si può proporre di creare “comunità” solo se ci si è interrogati a lungo sulle forme sociali del rispetto. L’offerta di coinvolgimenti momentanei da parte di un artista-animatore, impresario o demiurgo non avvia alcun serio processo di riconoscimento reciproco, neppure se ha luogo in un museo, al contrario. E’ la parodia di un’arte che voglia davvero definirsi “pubblica”. Lungi dal promuovere capacità complesse e utili riflessioni, le “pratiche relazionali” si rivelano spesso forme di autopromozione molesta di artisti, curatori o istituzioni a corto di risorse e in cerca di legittimazione sociale e istituzionale.
Il deficit di autorevolezza di ciò che chiamiamo “arte contemporanea” è accentuato, non solo in Italia: occorre rappresentarsi plasticamente la circostanza e farsene una ragione. Al tempo stesso dovremmo evitare l’autodenigrazione e smettere di considerarci “periferici”: lo saremo davvero, in senso diminutivo, sinché non saremo stati capaci di elaborare in modo nuovo e potente l’elemento “nativo”. Proprio la relativa destrutturazione del “sistema” pubblico italiano, congiunta alla prevalenza di capitali privati che provengono dall’industria del lusso, fa del nostro paese un osservatorio privilegiato dell’attuale mutazione del collezionismo in senso neo-oligarchico e post-democratico.
Tra Sei e Settecento, prima nei Paesi Bassi e poi in Francia, l’arte moderna ha stabilito specifiche solidarietà storiche e sociali. Si è rivolta non all’aristocrazia ereditaria né all’alto clero ma a persone distanti dagli apici del potere e della ricchezza, memori dell’indigenza e della vulnerabilità: i membri di una “classe generale”.
Oggi non sappiamo bene cosa accadrà, né se la creatività “professionale” manterrà i connotati linguistici, sociali e istituzionali consueti. E’ tuttavia verosimile che potremo procurare maggior vigore all’arte del nostro tempo se incoraggeremo gli artisti a esplorare le potenziali implicazioni pubbliche della propria attività; e se progetteremo in modo nuovo istituzioni e processi di lungo periodo, formazione in primis. Ma questo è un compito politico