Pietro Cimara, l’infinito. O tutto in un come

(foto proprietà di Alberto Nones)

 

 

È uscito a maggio 2019 per Da Vinci Classics un CD dedicato a liriche vocali da camera di Pietro Cimara su testi di vari poeti, interpreti il soprano Nunzia Santodirocco e lo scrivente Alberto Nones al pianoforte. Si tratta della riscoperta di un compositore quasi del tutto sconosciuto al di fuori di poche nicchie di appassionati, tra cui la più fervida oggi si trova in Giappone. Accompagna il CD una nota musicologica in inglese sempre del sottoscritto, presentata qui in una versione in italiano. È propizio parlare di Cimara in questo 2019, duecentesimo anniversario dalla nascita de L’Infinito di Leopardi, per via di un nesso molteplice che questo scritto si appresta ad illustrare.

Pietro Cimara nacque nel 1887 a Roma, dove studiò composizione con Ottorino Respighi, il “mio Maestro” al quale dedicherà Notte d’estate, e morì a Milano nel 1967, ma al di là delle notizie rintracciabili è una figura avvolta da una discreta coltre di nebbia. Figlio di Giovanna Putti e Giuseppe, non si sa come si sia avvicinato alla musica; certo è che studiò al Liceo musicale di Santa Cecilia con maestri come Stanislao Falchi e Alessandro Bustini (che avrà tra gli allievi anche Petrassi e Maderna), proseguendo in parallelo gli studi fino alla laurea in giurisprudenza. Iniziò a lavorare al teatro Costanzi prima come sostituto e poi come direttore d’orchestra, facendosi anche notare dal pubblico aristocratico della capitale, dove la sua famiglia era di casa, come autore di liriche vocali da camera. Momento decisivo fu il 1919, quando, poco più che trentenne, Cimara ebbe modo di assistere Puccini e Toscanini per la prima del Trittico, sempre al Costanzi. Negli anni a seguire fu assistente e collaboratore dei principali direttori d’orchestra del tempo, come Tullio Serafin o Vittorio Gui. Quest’ultimo, compositore di liriche anch’egli, nell’occasione in cui invitò Cimara a dirigere La traviata al Covent Garden nel 1939, scrisse che tale riconoscimento era dovuto a quell’uomo, solitamente dietro le quinte. Nel frattempo, si diffondeva a livello internazionale la sua fama di “insuperabile accompagnatore”, conclamata dall’unica registrazione esistente con Cimara al pianoforte, un 33 giri della collana “legendary performances” pubblicato da CBS/Odyssey che abbiamo potuto ascoltare grazie all’ICBSA di Roma, che ne conserva copia. Il disco presenta il basso Salvatore Baccaloni in varie arie e romanze del suo repertorio, oltre che in una incisione del 1922 di Fiocca la neve di Cimara con lo stesso compositore al pianoforte. Trasportata in do minore dal sol minore delle edizioni a stampa e, nella parte pianistica, con raddoppi di ottava finali aggiunti (ma in quel disco le stupefacenti doti di libertà improvvisativa al pianoforte sono magnificate nell’accompagnamento della declamazione da parte di Baccaloni di alcuni Sonetti romaneschi di Trilussa), Fiocca la neve dimostra in Cimara un’elasticità nell’agogica da grande direttore d’orchestra e una tavolozza timbrica da grande pianista. Già negli anni ’10 il nostro aveva collaborato con il soprano lirico spinto Eva Tetrazzini-Campanini, e nel ’19-’20 aveva accompagnato la più nota sorella Luisa Tetrazzini, soprano di coloratura, in un tour mondiale i cui programmi presentavano anche sue composizioni. In tale vortice di attività concertistica e soprattutto direttoriale, la composizione era destinata a rimanere in una nicchia. Cimara approdò al Metropolitan di New York, dove lavorò dal 1928 dirigendo un numero impressionante di concerti e opere con tutti i migliori cantanti del tempo, davvero senza risparmiarsi se la sua uscita di scena, nel 1958, fu a seguito di un malore occorsogli sul podio durante la direzione (manco a dirlo) de La forza del destino: come abbiamo appreso dalle cronache dell’epoca, Cimara cadde dal podio nella buca dell’orchestra e il violinista Walter Hagen subentrò nella direzione, mentre il nostro veniva portato in ospedale. Un bel colpo di teatro, si potrebbe pensare, salvo che era stato davvero un grave infarto, che portò alla chiusura della sua attività direttoriale. L’indefesso impegno di Cimara era stato quasi sempre in ruoli di preparazione e per repliche, e così tornò nell’ombra. Il suo carattere d’altra parte aveva sempre portato in quella direzione, e forse si era fatto ancora più riservato dopo la morte precoce dell’unica figlia. Melody Rich, autrice di una tesi dottorale dedicata a Cimara che costituisce ad oggi una delle poche fonti di informazione sulla vita e le opere del nostro, ipotizza che la misteriosa dedica di Nostalgia, “a…”, potrebbe essere alla figlia, e amiamo crederlo anche noi. Persona schiva e gelosa dei suoi affetti, Cimara amò e servì la musica con totale dedizione ma senza clamori. È ancora maggiore e più raro il privilegio, quindi, di contribuire a riportare oggi la sua musica alla luce, una musica così sentita e vera, a nostro avviso, che forse il compositore stesso era combattuto tra il coltivarne la vena creatrice e quindi darla in pasto al pubblico, o tenerla in un cassetto o al massimo condividerla in circoli ristretti. L’infinito nel senso dell’incompiuto, sembrerebbe di dover concludere.

Delle opere di Cimara per voce e pianoforte solo una quarantina hanno conosciuto diffusione editoriale. Compaiono nell’album di prossima uscita per Da Vinci Classics una rosa di composizioni la cui pubblicazione va dagli anni ’10 (Adorazione, Dormi!…, Fiocca la neve, Mattinata, Nostalgia, Notte d’estate, Paesaggio, Paranzelle, Presso una fontana, Stelle chiare, Stornello) e ’20 (Le campane di Malines, O dolce notte!…, Visione marina), fino agli anni ’30 (Ondina, la cui datazione era considerata ignota, ma grazie all’Archivio Storico Ricordi abbiamo potuto appurare che fu registrato nei Libroni manoscritti di Casa Ricordi il 15-7-1931, e L’Infinito, 1933). Sono state trascelte quelle opere che condividono una simile temperatura poetica, sia essa lirica o intimistica (con qualche concessione al salottiero conturbante fin de siècle). Il criterio di scelta può essere esemplificato da un brano come Le campane di Malines, che colpisce per l’afflato romantico, con un taglio da ricordo personalissimo di uno di quei momenti che custodiamo in un’area segreta, la pagina intima di un diario di istanti fissati per l’eternità nelle nostre vite forse modeste ma irripetibili e solo nostre; ciò acquista ancora più valenza, se pensiamo che nelle poesie scritte intorno a Malines e le sue campane (ad esempio quella di Henry van Dyke del 1914), risuona fortemente il dramma della guerra, quando la città belga fu segnata dall’occupazione tedesca, un risvolto drammatico che si trova anche nella sezione centrale del notturno di Poulenc che, posteriore, porta curiosamente lo stesso titolo, Les Cloches de Malines. Cimara invece va a scovare nella traduzione di Goffredo Pesci i versi di un poeta ad oggi ignoto, da noi identificato in Edward Teschemacher (alias Edward Lockton, trascritto erroneamente Locxton sulle fonti disponibili), che nella sezione centrale più accorata lamentano al più un’assenza, forse anche qui il lutto per la scomparsa di qualcuno di caro. Comprensibile l’attrazione esercitata su Cimara dalla poesia del Pascoli più intimista. Come criterio generale, Cimara sceglie poesie che possano diventare davvero sue, ed egli non era esattamente un byroniano. Il come, la maniera in cui si fanno musica, è la creazione di qualcosa di totalmente nuovo, squisitamente personale, combinazione della poesia già esistente con la sensibilità del compositore, ed è un insieme di suoni e di parole, un tutto di suono e di parola.

Spesso Cimara scelse per la sua musica versi di poeti oggi pressoché obliati, come il già citato Goffredo Pesci (autore di Visione marina), il Carlo Zangarini della silloge Spunti d’anima, più noto come librettista, o Arnaldo Frateili, il quale aveva composto nemmeno ventenne poesie assai semplici, come l’amoroso Stornello o, sull’affetto filiale, una Mattinata nella cui bellezza evidentemente il nostro compositore doveva credere, se la dedicò “a mia madre”. Badava all’effetto che i versi avevano su di lui, al di là delle patenti dei loro creatori. Scelse anche versi di poeti laureati, ciò che non era affatto un’eccezione nella scena musicale di quegli anni. Influenzati dal modello della poesia utilizzata da Debussy per le sue liriche vocali (Verlaine, Baudelaire), i musicisti italiani avevano cominciato ad attingere ai grandi del recente o remoto passato, o ai loro contemporanei, ad esempio Carducci, Pascoli, D’Annunzio, Fogazzaro. O Vittoria Aganoor Pompili, figura oggi poco nota, e ingiustamente. I suoi versi, messi in musica anche da Respighi, nella Belle Époque europea colpirono molto, come destò sensazione la sua morte nel 1910 immediatamente seguita dal gesto estremo del marito, il politico napoletano e uomo di cultura Guido Pompili, il quale si sparò un colpo di pistola accanto al corpo dell’amata non potendole sopravvivere. Non solo di amore indissolubile trattano le poesie della Aganoor Pompili scelte da Cimara, ma anche di quegli enigmi dell’esistenza su cui getta squarci di luce la poesia simbolista. Ecco ritornare in campo il Pascoli di Fiocca la neve (una poesia messa in musica anche da un altro “compositore minore”, Adolfo Gandino, il cui titolo originale è Orfano, o il carducciano Neve fino alla quarta edizione di Myricae). Pascoli è fatto proprio da Cimara perfino nella libera alterazione di quella risorsa ultima e unica che sono, in poesia, le parole: il “tutto un bel giardino” di Pascoli diventa in Cimara “come un bel giardino”: ancora una volta, tutto in un come; un giardino che non è un giardino, è come un bel giardino, o almeno vorremmo lo fosse, mentre aleggia solo quale visione onirica, in un tempo sospeso e di attesa al cospetto dello stordimento e lo smarrimento che è un grave lutto tra gli uomini.

Anche Heine nel finale di Nostalgia (che abbiamo riconosciuto nella prima poesia di Seraphine) è leggermente modificato in Cimara, ma è poca cosa rispetto alle potature sui versi della Aganoor Pompili. Il fatto è che stava facendo musica, cioè stava creando qualcosa di nuovo. Similmente a come aveva fatto con Fiocca la neve, si prende la libertà perfino di aggiungere la ripetizione del verso finale, e la trasformazione (complici i suoi editori) da un sacro “ove” ad un sonoro “onde” in una poesia intoccabile come L’Infinito di Leopardi. Intoccabile? Non vengono alla mente molti altri tentativi di realizzare una versione musicale dell’idillio leopardiano nei suoi duecento anni di vita, fatta eccezione per quello di un campione della musica italiana del Novecento come Mario Castelnuovo Tedesco, la cui messa in musica de L’Infinito è di poco precedente a quella del nostro, 1931. Eppure, stranamente forse per un compositore dalla vena sempre felice come Castelnuovo Tedesco, si avverte lì una certa monastica castigazione, una severità medievaleggiante poco leopardiana (o propria di una visione di Leopardi oggi messa in discussione), chissà se dovuta proprio ad una magari inconscia sudditanza verso L’Intoccabile. Quella composizione di Castelnuovo Tedesco, dedicata nientemeno che ad un’altra torreggiante figura di compositore come Ildebrando Pizzetti, quasi una dichiarazione d’intenti, è paradossalmente la dimostrazione dell’incombenza di un rischio, nel fare musica da una poesia: il rischio che la poesia non possa essere immaginata molto più in là di un recitativo, e la musica molto più in là di un commento; per non parlare degli altri rischi, in cui incappa ad esempio la versione ottocentesca di Gaetano Braga. Ecco invece che proprio Cimara, il nostro semisconosciuto, riesce nell’impossibile: si abbandona nell’abisso, l’ “abisso confuso di innumerabili e indefinite sensazioni” in cui la musica “immerge l’ascoltante” secondo lo stesso Leopardi (Zibaldone di pensieri, 24 settembre 1821), e realizza qualcosa che non fa rimpiangere la voce e il silenzio di quell’altissima poesia; così facendo, le è fedele come altri mai. Fin dai primi accordi del pianoforte, che vanno oltre, al di là della siepe di frequenze abituali, della zona centrale della nostra tastiera di emozioni e sentimenti. Sono battute magistrali le quattro introduttive di questa composizione, quasi una firma di Cimara, indefinita e cioè vaga e poetica (in senso prettamente leopardiano), infinita: nel vagare di una modulazione (quanto mai atta a trasportare in quella regione dove pure la poesia, con il suo percorso dal “fui” al “m’è”, conduce), Cimara ci porta attraverso sei accordi dal La minore al Do maggiore, salendo per toni e creando quindi con la linea inferiore una scala esatonale (scala suddivisa in sei toni interi, tanto antica quanto profondamente radicata in varie zone del mondo, non solo orientali). Senza che questo sia esplicitato narcisisticamente nella notazione, Mi diesis, enarmonicamente Fa, diventa sottodominante della tonalità tutta bianca in cui si svilupperà il brano, quel Do maggiore (anche Castelnuovo Tedesco ci aveva provato…) che a fine Settecento il poeta e teorico Daniel Schubart aveva decretato pura, associandola a un carattere di “innocenza, semplicità, naturalezza, voce di fanciullo”. Sempre che il compositore sappia come parlare con la profondità della voce di un fanciullo. E Cimara sa come.

Concludiamo con un’osservazione che scaturisce dal conoscere qualcosa di più sull’autore dei versi dell’ultima lirica presentata nel CD “Pietro Cimara, L’Infinito”. Si tratta di quell’Alessandro Costa (1857-1953) che fu anche insegnante d’armonia e contrappunto al Liceo in cui Cimara aveva studiato, nonché compositore egli stesso, formidabile animatore culturale (fu tra coloro che portarono al culto di Bach in Italia tramite la “Società Bach” da lui fondata nel 1903 e attivissima a Roma nei primi anni del Novecento), e fervente ammiratore del buddhismo: compose su questo soggetto un’opera, di cui elaborò anche il testo; scrisse una cantata sacra buddhista; e dopo il naufragar della sua società bachiana, si ritirò presso Rieti per dedicarsi agli studi e alla riflessione sulla vita e la musica, per come platonicamente dovrebbero essere. Strane o forse non troppo strane assonanze, tra i versi e i suoni di Presso una fontana, anni ’10, e L’Infinito, anni ’30, come se Cimara amasse riprovare “la voluttà dello sparire individuale nella vita universale”, per citare Francesco De Sanctis. Ci piace pensare che il “cercare nel suo cor l’ignoto” di Costa, quel suo buddhista o leopardiano “perdersi nel mar de l’infinito”, siano ciò che cercava nella poesia della vita, e nella sua musica, Pietro Cimara.


Tagged: , ,


Scenari. Il settimanale di approfondimento culturale di Mimesis Edizioni Visita anche Mimesis-Group.com // ISSN 2385-1139