Il tramonto dell’Occidente, un secolo dopo.

 

 

Cento anni fa, nel 1918, in un contesto storico devastato da quell’evento epocale che fu la Prima Guerra Mondiale, uscì in Germania il primo volume di un’opera di dimensioni enormi(il secondo volume uscì nel 1922), Il tramonto dell’Occidente, redatto da uno studioso, Oswald Spengler, lontano da affiliazioni accademiche di sorta. In Italia, l’opera venne tradotta solo verso la fine degli anni Cinquanta(per la precisione nel 1957), anche se da allora vi sono poi state diverse riedizioni(in questa sede, per questo contributo, la lettura utilizzata è l’edizione Longanesi del 1981, che riunisce i due tomi in un unico libro curato da Furio Jesi). Si trattava di uno studio vastissimo che comparava le civiltà nel corso dell’intera storia mondiale, considerandone le caratteristiche culturali legate a contesti religiosi, filosofici, scientifici, giuridici, istituzionali, economici, mitologici, archeologici, artistici, architettonici, letterari, musicali.

La straordinaria ampiezza del discorso proposto da Spengler nella sua ricerca rende non facile identificarne in modo univoco la collocazione disciplinare: l’opera si può configurare in prima istanza come un contributo di filosofia della storia, ma è anche indubbiamente un trattato di storia comparata, di storia della cultura e delle idee, sotto certi aspetti anche di sociologia dei processi culturali; è un testo che ha anche una sua visone “politica” nel senso più ampio del termine. La tesi cruciale del libro è che, giunti ormai all’inizio del Novecento, la civiltà occidentale avviata dalla modernità sia giunta alla sua fase discendente e conclusiva, avendo raggiunto i suoi apici nell’Ottocento: l’idea è derivata appunto da un confronto, impegnativo e denso di dettagli, che Spengler effettua ripercorrendo l’evoluzione, attraverso i secoli e gli snodi epocali, delle varie civiltà che hanno attraversato la storia mondiale: dalla civiltà classica a quella romana, da quella cinese a quella indiana, da quella messicana quella persiana, da quella dell’antico Egitto a quelle mesopotamiche, dalla civiltà gotica a quella mongola, da quella araba a quella bizantina.

Spengler delinea “anime” specifiche che caratterizzano le fasi di una civiltà e definisce quella moderna occidentale come “faustiana”, imperniata sul divenire, su «un’esistenza vissuta con una profonda consapevolezza presso ad un Io che osserva se stesso»(cfr. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, Longanesi, Milano, 1981, p. 278) e ben distinta dall’anima “apollinea”, tipica del mondo classico o dall’anima “magica”, tipica di altri stadi di civiltà. Il suo studio appare, anche, sia come una, a volte pletorica o pedante, apologia di una civiltà perduta, sia come una critica della dimensione metropolitana dell’esistenza. Si è di fronte a una ricerca spasmodica sul destino moderno attraverso un viaggio intellettuale vertiginoso e drammatico che porta Spengler a affermare che «La vita è dura quando deve essere grande. Essa consente solo la scelta fra vittoria e disfatta, non fra pace e guerra, e la vittoria esige il sacrificio”(cfr. ivi, p. 1292)», e a pensare che, in definitiva, «Ogni «filosofia» oggi non è altro che un’abdicazione interiore, che un lasciarsi andare con la vile speranza di sfuggire alla realtà grazie a una mistica»(cfr ivi, p. 1293). In effetti, il destino della modernità su cui si interroga Spengler sarà un tema che diverrà nodo chiave di teorie di numerosi filosofi, sociologi e studiosi che segneranno la vicenda del Novecento, basti pensare a Arendt, Schmitt, la Scuola di Francoforte, Foucault e i post-strutturalisti, solo per fare qualche esempio indicativo di una lista che potrebbe essere facilmente allungata e calibrata.

Dare conto di tutti i fili del discorso che innervano quest’opera di circa 1500 pagine è illusorio: Spengler coglie tanti passaggi epocali, nella matematica, nel diritto, nella religione, nell’architettura, nelle forme di conoscenza che conducono a una visione politica di fondo, in cui emerge la sua critica del parlamentarismo e la sua idea di cesarismo, la sua sfiducia nelle masse e alcune sue previsioni sull’evoluzione futura della società occidentale in relazione e economia e tecnica, in cui egli ha prefigurato alcune dinamiche che in effetti oggi, a un secolo di distanza, possiamo valutare con interesse.

Ma stanti queste considerazioni di massima, se ci poniamo la domanda del senso di una rilettura oggi, nel 2018, di questo studio, non è tanto sul discorso politico in sé che ci dobbiamo soffermare, né sulle sue tesi specifiche: ovviamente, anche questi sono temi di continuo interesse e meritevoli di attenzione, ma in questa sede ciò su cui si preferisce provare a insistere è la tipologia di conoscenza e la sua impostazione che Spengler propone: Il tramonto dell’Occidente è un libro che è forse l’ultimo riflesso nel Novecento di una cultura Ottocentesca, di una modalità di tenere insieme concetti, teorie e prospettive storiche, con uno sguardo enciclopedico. La frammentazione/compartimentazione dei campi del sapere consumata nel Novecento e ancora più estremizzata nei contesti sociali e culturali del XXI secolo, rende praticamente improbabile pensare che oggi qualcuno possa produrre un’opera con una impostazione analoga o che, ammesso che vi sia, si possa trovare un editore disposto a pubblicarla: inoltre, il tipo di lettore che sceglie questo testo, può farlo solo dedicandogli molto tempo, anche solo semplicemente per il fatto che il libro è di davvero grandi dimensioni, tanto più per gli standard diffusi della cultura globalizzata. Lo studio di Spengler, per chi si avventura nella lettura, lancia bagliori sorprendenti e allo stesso tempo esprime inquietudini cui non si resta indifferenti.

Criticata, come è noto, da Croce e da Popper, l’opera di Spengler, sfugge la dimensione accademica, ha uno stile tutto suo, un tono profetico, molti paragrafi proseguono per pagine e pagine e sono semplicemente numerati e senza un titolo, è una navigazione imperiosa nel mare magnum della storia, una lunga navigazione in cui la destinazione diventa forse secondaria rispetto agli infiniti panorami che essa lascia intravedere e che continuano a scorrere nella mente del lettore. Riprendere oggi questo testo, significa riesaminare il desiderio ineffabile di una comprensione del senso della storia, del senso stesso della civiltà, dell’umanità e delle sue manifestazioni culturali e intellettuali più disparate e complesse: in una fase come quella attuale in cui ormai molti schiacciano la vita sull’istante, leggere Spengler riporta a una visione epocale del pensiero, della scienza, della politica, della cultura, dell’economia, della vita stessa. Il senso della conoscenza storica è in fondo il preludio della coscienza umana, poiché è l’elaborazione del passato, non la sua rimozione, che permette di provare a comprendere davvero l’esistenza e la sua dinamica sfuggente e spiazzante. Abbiamo ancora bisogno di una visione epocale del genere? Non è facile rispondere, perché la domanda comporta implicazioni e dibattiti non risolvibili né delineabili in modo immediato, ma non sembra inopportuno ritenere che abbiamo quantomeno bisogno di porci una domanda del genere, che può restituire la cifra ultima del nostro confronto con l’opera spengleriana.



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