YELLOW SUBMARINE NEL MARE DELL’ESISTENZA – PARTE PRIMA

So we sailed up to the sun
Till we found the sea of green
And we lived beneath the waves
In our yellow submarine

The Beatles, Yellow Submarine 

 

 

Oggi è un giorno importante per il mondo del cinema, dell’animazione e della musica: oggi si festeggiano, infatti, i 50 anni di Yellow Submarine, il quarto episodio cinematografico dell’ideale pentalogia dei Beatles, che precisamente il 7 luglio del 1968, uscì nelle sale sotto la direzione del regista George Dunning, autore di diversi cartoon d’avanguardia, assieme al famoso grafico pubblicitario Heinz Edelmann.

La commistione tra le più celebri e amate canzoni del gruppo di Liverpool e un nuovo tipo di animazione, distante dal modello disneyano, allora dominante nel cinema d’animazione, che mescolava con sapienza i diversi elementi dell’arte figurativa moderna, pop art, dadaismo, futurismo, op art, fu accolta con entusiasmo sia dal pubblico che dalla critica. Anche se, come osserva Guido Michelone, il film non venne “compreso nella sua totalità: al di là dell’ammirazione spesso lodevole, pungente, aggiornata per le caratteristiche formali del lungometraggio, non si è mai cercato di spiegare il sistema relazionale tra i modelli comunicativi sovrastratificati all’interno dello sviluppo discorsivo, psicologico e addirittura simbolico del film medesimo” (Arcagni, Cucco, Michelone, 1998: 324).

Infatti nelle varie analisi fu posta grande attenzione all’aspetto estetico dell’opera, al suo carattere fantasioso e formale mentre si trascurarono quasi del tutto quei contenuti e rimandi che strutturano l’intero film. È pur vero che il lungometraggio, così come tutta l’opera beatlesiana, si muove all’interno di un registro ermetico, di difficile comprensione per chi è distante da quei vari percorsi culturali ed esperienziali che vennero intrapresi dai Beatles. Fra questi percorsi celebre è quello che portò i quattro musicisti, sin dalla metà degli anni 60, a manifestare un loro forte interesse nei riguardi della cultura orientale e in particolar modo verso la filosofia e religione indiane, tanto che, pochi mesi prima dell’uscita di Yellow Submarine, i Fab Four si trasferirono in India con l’intento di studiare più profondamente la meditazione indiana.

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I Beatles in India con Maharishi Mahesh Yogi

Ed è proprio attraverso un approccio al pensiero orientale che riteniamo possibile una comprensione di quella fitta rete di rimandi e di simboli dei quali l’intero film è estremamente ricco; focalizzeremo, in particolare, la nostra attenzione sulla religione indiana basandoci sugli importanti studi condotti da Heinrich Zimmer e avvicinandoci anche alle analisi sul pensiero orientale di Carl Gustav Jung, il quale, con lo studioso tedesco non solo strinse un’intensa amicizia, ma attraverso la sua opera scoprì importanti legami tra la propria teoria psicoanalitica e il pensiero indiano. L’India e il suo pensiero, ovviamente nella lettura e rilettura che l’Occidente può trarre, diventeranno così i nostri riferimenti per l’analisi del film Yellow Submarine e per la comprensione di quegli elementi appartenenti alla cultura orientale che lo compongono, poiché come scrive Zolla, l’India è da considerarsi “la matrice dell’Oriente” (Zolla, 1996: 7), e, quindi, matrice di tutte quelle forme di pensiero e religioni che in essa nacquero e si svilupparono.

Tenteremo così di capire per quale motivo la fantasia di Lennon e di McCartney scelse proprio un sottomarino giallo come ipotetico mezzo di trasporto per i loro “viaggi” e perché in tutto il film il simbolo del fiore è così ricorrente; emergerà così che Yellow Submarine non è per niente una semplice “favoletta”, come superficialmente è stato spesso considerato, ma un film di animazione profondo e complesso che riesce a dare perfetta rappresentazione al mondo poetico dei Beatles e alla loro personale lettura occidentalizzata del pensiero indiano.

 

 

Pepperlandia o il regno di Brahmā

 

Il film si apre mostrandoci, come recita la voce over, “un paradiso terrestre che si chiama Pepperlandia (…) il regno dell’Amore”, un mondo ricco di colori e di melodie, all’interno del quale regna la serenità e i cui abitanti, in stretto contatto con gli animali e la florida vegetazione del luogo, trascorrono il loro tempo a giocare, suonare, divertirsi insieme, attorniati da grandi lettere che compongono parole inneggianti l’“amore” e il “sapere”.

 

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Questo mondo incantato potrebbe corrispondere, nella religione indiana, al loto di Brahmā, ovvero alla più alta forma o aspetto della terra che risiede nel venerato fiore orientale. Se infatti si prende la descrizione che di questa terra viene proposta da Zimmer, si potrà notare che diversi risultano i punti di contatto con ciò che il film ci  mostra nel suo incipit: “da questa Terra sorgono le sante, torreggianti montagne, sature della linfa vitale del loto. […] Tutte queste vette sono abitate da schiere di dèi, esseri celesti e soprannaturali, e da santi perfetti che esaudiscono i desideri delle persone pie. Inoltre l’acqua che scende da queste montagne è benefica quanto l’elisir d’immortalità, e si riversa in fiumi che sono sante mete di pellegrinaggio. E i filamenti del loto sono le innumerevoli montagne del mondo, ricche di metalli preziosi. I petali esterni contengono i continenti inaccessibili delle popolazioni straniere” (Zimmer, 1997: 55).

Nel mondo che il film rappresenta si potrebbero anche cogliere dei punti in comune con il paradiso cristiano se non giungessero a rompere l’armonia del luogo i Biechi Blu, esseri demoniaci intolleranti della musica e dei colori, che tenteranno, riuscendoci in prima istanza, di portare il disordine e il terrore. Se per la cultura cristiana è infatti inconcepibile che dei demoni possano vivere all’interno del Paradiso, o ancora meglio, nella Rosa Celeste descritta da Dante, nella religione indiana tale presenza rientra perfettamente nella loro concezione; assicura infatti Zimmer che “nella parte inferiore dei petali [del fior di loto] vivono demoni e serpenti” (1997: 56). I ruoli di demoni e serpenti vengono così ricoperti, nell’interpretazione del regista e dei Beatles, dai Biechi Blu.

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Ed è proprio dalle parole del capo di questo gruppo che cogliamo un altro elemento che intensifica maggiormente il legame tra Pepperlandia e il “loto di Brahmā”. Irretito dall’armonia del luogo, il Bieco Blu urla, prima di passare all’attacco, che Pepperlandia è “un solletico di gioia nella pancia blu dell’universo”. Esclamazione che potrebbe passare del tutto inosservata mentre, invece, diviene un ulteriore elemento di rafforzamento per l’interpretazione qui proposta.

Ma per comprendere con più chiarezza questo aspetto necessiterà fare una breve digressione sulla struttura dell’universo che emerge dai testi sacri indiani, conoscenza che ritornerà utile per la comprensione di altri aspetti del film. Nell’Induismo, terza e ultima fase di sviluppo della religione indiana, posteriore all’iniziale Vedismo e al successivo Brahmanesimo, il pantheon vedico subisce alcune modifiche e vengono messe in primo piano divinità originariamente secondarie, fra le quali spicca il dio Vishnu, l’Essere Supremo. Attraverso l’affascinante mito che descrive le avventure del saggio Mārkandeya, che per un caso miracoloso ha la possibilità di contemplare da vicino Vishnu, veniamo a conoscenza di alcuni aspetti che compongono questa divinità.

Vishnu, “l’Uomo cosmico Primordiale”, come lui stesso si presenta dinanzi al saggio che ha l’onore di parlagli, è l’origine e la fine di tutto. Solitario, gigantesco, vive nella sostanza immortale dell’oceano, “in parte sommerso, in parte a fior d’acqua” dove “non c’è alcuno che lo contempli, alcuno che lo comprenda” (Zimmer, 1997: 43). La distesa d’acqua sulla quale riposa, specifica però Zimmer, non è da considerarsi elemento indipendente da Vishnu: infatti il “gigante” e “l’oceano cosmico” sono “la duplice manifestazione di una sola essenza”: “all’interno del dio c’è il cosmo, come un bambino non ancora nato dentro la madre; e qui tutto è restituito alla sua perfezione originaria. Sebbene fuori non esistano che tenebre, nel divino sognatore fiorisce una visione ideale di come l’universo dovrebbe essere” (Zimmer, 1997: 43).  Noi viviamo, quindi, secondo il mito indiano, all’interno del corpo di Vishnu e se avessimo la fortuna di poter uscire fuori dalla bocca della divinità, come accade al saggio Mārkandeya, comprenderemmo che la realtà in cui viviamo, che ci appare solida e sostanziale, altro non è che un sogno o una visione nella mente del dio addormentato, definita nella religione indiana con il termine Māyā; inoltre faremmo nostro uno dei concetti più importanti del pensiero indiano ovvero che ogni singolo uomo non è altro che una piccola parte che compone l’Unità, per cui ci è data la nostra possibilità trascendere i limiti della coscienza individuale.

Proseguendo il nostro viaggio nella struttura dell’universo indù scopriamo che Vishnu, dal proprio corpo cosmico, precisamente dal ventre, “fa spuntare un unico loto con mille petali d’oro puro, immacolato, radioso come il sole. E insieme al loto produce il Dio-Creatore dell’Universo, Brahmā, seduto nel centro dell’aureo fiore che sboccia e brilla dell’energia incandescente della creazione” (Zimmer, 1997: 55). Questo aspetto messo in luce da Zimmer ci riporta così all’osservazione del Bieco Blu su Pepperlandia e ci spiega il motivo per cui il demone definisce quel paradiso come “un solletico di gioia nella pancia blu dell’universo”. E nello stesso tempo ci fa comprendere come per il Bieco Blu, che nella fantasia beatlesiana rappresenta e racchiude in sé tutti gli aspetti negativi di colui che non è Illuminato, risulta insopportabile quel solletico di gioia nella pancia blu dell’universo, quel fiore di loto sbocciato dal ventre di Vishnu, e farà di tutto per distruggere quella realtà e i valori che essa simboleggia al fine di far prevalere l’oscurità e l’ignoranza. “Il loto del mondo”, scrive Zimmer, “sostiene il simbolo dell’Illuminazione che disperde le tenebre dell’ingenua ignoranza inerente in tutti gli esseri umani. Il simbolo del loto […] porta la saggezza possente del nirvana: la Parola che pone fine a ogni esistenza individuale in cielo o sulla terra” (Zimmer, 1997: 95).

Il Bieco Blu combatte dunque contro il sapere dell’Illuminato affinché l’uomo possa rimanere chiuso nella sua ignoranza, nell’illusione che la Māyā di Vishnu sia la realtà, e nell’erronea idea di soggettività individuale. Ed è questa lotta contro la conoscenza, l’illuminazione, che viene resa con grande efficacia nel film nelle due scene in cui, nella prima, le cannonate dell’esercito dei Biechi Blu, all’attacco di Pepperlandia, distruggono la scritta “KNOW”, inneggiante al sommo sapere, trasformandola nella parola “NO” simbolo del pensiero di colui che si oppone alla ricerca del Sapere e della Verità e si barrica dietro le false apparenze terrene, e nella seconda scena, il Guanto volante, abbatte la scritta “YES” e la priva dei propri colori.

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I Biechi Blu fanno così il gioco della dea Māyā-Śakti-Devī la quale avvolge, come un guanto, appunto, la coscienza, imprigionando l’Io in una rete di illusioni tali da fargli credere gli inganni della vita terrena come reali e concreti; in tal modo fa precipitare l’uomo nel vortice dei tormenti della seduzione, del desiderio e della morte “quando invece, da un punto di vista che sta appena al di là della nostra comprensione māyā – il mondo, la vita, l’io a cui ci aggrappiamo – è tanto fuggevole ed evanescente quanto le nuvole e la nebbia” (Zimmer, 1997: 34).

Il pensiero indiano si pone il fine di farci comprendere il nostro coinvolgimento al mondo terreno, con l’obiettivo di superarlo per entrare in una realtà che sta al di fuori da ciò che avviluppa il nostro essere. Ed è proprio questo fine ad essere stato espresso nei miti indiani tramite l’immagine simbolica dell’immersione dell’uomo, desideroso di conoscere, all’interno delle profondità delle acque dell’oceano. L’acqua è infatti considerata la “manifestazione tangibile dell’esistenza divina” (Zimmer, 1997: 34) all’interno della quale risiede la divinità Vishnu. Per questo motivo, secondo il pensiero indiano, “tuffarsi nell’acqua significa addentrarsi nel mistero della māyā, andare alla ricerca del segreto ultimo della vita” (Zimmer, 1997: 40). E, come spiegano Jung e Wilhelm, traducendo il pensiero indiano in chiave psicoanalitica, “l’inizio in cui tutto è ancora Uno, e che perciò appare come la meta più alta, riposa sul fondo del mare nell’oscurità dell’inconscio” (Jung, Wilhelm, 2001: 47).

Ed è proprio in questo mare, nel Mare dell’Esistenza, che i Beatles intraprenderanno il loro viaggio, i quali non a caso immagineranno e canteranno l’esistenza di Sommergibile Giallo con il quale immergersi per la ricerca della Verità e la salvaguardia di quel solletico di gioia nella pancia blu dell’universo.

 

[La seconda parte dell’articolo verrà pubblicata lunedì 9 luglio]

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Bibliografia:

 

Arcagni S., Cucco P.G., Michelone G., Il cinema dei Beatles, Edizioni Falsopiano, Alessandria  1998.

Zolla E., La nube del telaio, Mondadori, Milano 1996.

Zimmer H., Miti e simboli dell’India, Adelphi, Milano 1997.

Jung C.G., Wilhelm R., Il segreto del fiore d’oro, Bollati Boringhieri, Torino 2001.


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