Franco Fortini veggente e mistificatore

 

 

 

 

“Lui è Franco Fortini, di cosa si lamenta? Io sono soltanto francofortese”. La battuta

è di Gianni Scalia, con il quale, molti anni or sono, mi trovai per caso a fare in treno un breve viaggio. L’ironico gioco di parole implicava un richiamo evidente alla Scuola di Francoforte di Horkheimer e Adorno a cui molti, e non solo Scalia, in quegli anni, guardavano con simpatia e ammirazione.

Scalia, come è noto, era amico di Fortini  fin dal tempo di “Officina”. Con lui ho avuto scarsi rapporti, ma, pur non ricordando il resto del nostro dialogo, quella battuta mi è rimasta impressa. D’altro canto nulla so dei rapporti di Fortini con Scalia e non so quindi dire se la battuta di quest’ultimo, come sembra probabile, si riferisse a qualche fatto preciso. Della tendenza di Fortini a  lamentarsi avevo fatto personale esperienza, quando, nel 1959, nel “verri”, avevo mosso a Fortini alcune critiche. Egli, anziché rispondermi, (del resto, io ero, allora, poco più che un ragazzo, e lui, come avrebbe sottolineato Scalia, era Franco Fortini), mandò a Luciano Anceschi, che la pubblicò nel “verri”, una breve lettera in cui si lamentava del mio comportamento.

Non serbo alcun rancore per quel piccolo episodio, anzi ho nutrito quasi gratitudine nei confronti di Fortini per l’attenzione che ha mostrato al mio scritto. Credo tuttavia che la tendenza a lamentarsi del comportamento di avversari, e di amici, fosse un aspetto non irrilevante della vita psichica di Fortini. Sulla quale, poiché sulla sua opera mi pare  che ci si sia soffermati abbastanza, vale la pena, a cent’anni dalla sua nascita, fermare un poco l’attenzione. Perché Fortini è stato, per alcuni, una sorta di maestro di vita, oltre che di letteratura. Se si preferisce, è stato il prototipo, imitato e inimitabile, di molti intellettuali italiani del secondo Novecento. Non si capisce, infatti, il comportamento di certi intellettuali italiani se non si tiene conto che essi hanno preso Fortini a modello. In primo luogo, per la ricerca continua e tenace della libertà, che era poi, spesso, la libertà di fare ciò che la propria inclinazione psicologica e intellettuale portava a fare, prescindendo da statuti e da regole. L’engagement, l’impegno, è stato, per molti, in Italia, nel secondo Novecento, una nozione molto ambigua. Sfuggiva, a molti, o a molti non tornava comodo, che “impegnarsi” volesse dire, in primo luogo, essere disposti a rinunciare a una piccola parte della propria libertà per poter costituire, tutti insieme, una massa critica, una forza collettiva capace veramente di mutare i rapporti di forza nella società borghese. Si lasciava alle “masse”, di cui parlava con fervore Pietro Ingrao, l’obbligo dell’obbedienza. L’intellettuale, si sa, ha il dovere di essere una coscienza critica  e deve quindi essere assolutamente libero. Le annotazioni di Gramsci sulla funzione degli intellettuali vennero, in alcuni casi, paradossalmente piegate verso un’abnorme esaltazione di quella funzione. Per cercare di dire tutto in poche parole, la libertà di Fortini e dei suoi emuli era, insomma, molto più una libertà anarchica che una libertà gramsciana e funzionale. Ed era proprio questo tendenziale anarchismo che affascinava e affascina alcuni. Che credevano, e credono, tanto più aumentata la propria autorevolezza quanto più si sentivano e si sentono “liberi”.

Agli occhi di Fortini non si poteva non militare nella sinistra, non era opportuno, però, iscriversi al Partito comunista italiano, che, come è noto, i suoi militanti, operai e intellettuali, li tiene legati e oppressi da una disciplina ferrea che impedisce e uccide ogni libertà. Inutile, quindi, l’incontro con Pietro Ingrao, che di quella interessata invenzione era la smentita personificata. Meglio, piuttosto, iscriversi al Partito socialista italiano, che sa conciliare la sinistra con la libertà. Tanto più che quel Partito viene da una tradizione anarchica  le cui reviviscenze attuali possono fare molto comodo a un intellettuale. Certo, se poi l’intellettuale esagera nel suo personale esercizio dell’”autonomia”, anche quel Partito perde la pazienza ed è costretto a limitare un poco la libertà del militante. Così Fortini si becca richiami e censure, finendo per andarsene. Come se ne è andato da “Officina”. Finalmente libero.

Il genio, ma anche  l’intelligenza, quando è acuta e irrequieta, si paga quasi sempre. Fortini ha pagato la sua prensile intelligenza – sorretta e condizionata da una vita psichica turbata e mobilissima – con incomprensioni, litigi e rotture. Se si accetta di interpretarlo in chiave prevalentemente psicologica, ci si rende conto che egli era quasi del tutto innocente  dell’amarezza e dell’avversione che a volte provocava. Se invece si rifiuta la chiave psicologica, non si può non ammettere che di questa amarezza e di questa avversione  era il massimo responsabile.

Io non so naturalmente cosa pensassero precisamente di lui – al di là delle dichiarazioni ufficiali, e dei comportamenti personali, più o meno mimetici – molti suoi amici e i suoi allievi. A me, che non l’ho mai incontrato, e che  senza averlo conosciuto cerco ora di interpretarlo, Fortini è sembrato un intellettuale che, senza aver sofferto personalmente il martirio della Shoah, ne portava radicato nella mente il fantasma. A tormentarlo, probabilmente, non era tanto il ricordo delle persecuzioni patite dal padre e da lui stesso, quanto un  timore di nuove persecuzioni, un timore indeterminato, non scandito dal tempo, inattuale, perenne, privo di cause materiali e tuttavia, nella sua quotidiana corporale concretezza, del tutto privo anche di aspetti metafisici. Fortini si sentiva forse un ebreo più perseguitato degli altri e, diversamente dal suo ironico amico Cesare Cases,  credeva quindi di essere l’unico ad avere il diritto di portare il broncio al mondo, di stare sempre in allerta e – trasformando, come spesso gli accadeva, la difesa in attacco  – di fare con libertà assoluta, in letteratura e in politica, quello che gli piaceva, anche se quello che gli piaceva non piaceva agli altri. L’altro, agli occhi di Fortini, qualunque forma assumesse, doveva sempre essere,  fino a che non intervenisse un fattore rassicurante, qualcosa di enigmatico, di inquietante e di vagamente minaccioso. Da quel suo sentirsi perennemente minacciato e perseguitato derivava, credo, una sensibilità particolarmente mobile e reattiva, pronta ad accendersi al minimo contatto, si trattasse della lettura di un testo o della frase di un avversario o di un amico. Di qui, quindi, non senza, si capisce, l’apporto di un’intelligenza particolarmente rapida, la capacità di vedere, a volte, ciò che altri non vedevano, o vedevano dopo di lui, come quando, per esempio, si rese conto lucidamente che il poemetto di Vittorio Sereni  Un posto di vacanza, era “una pagina solitaria nella poesia e anche nella prosa contemporanee italiane”. Anche se poi delle ragioni per le quali quella “pagina” era “solitaria” non dava atto con una analisi approfondita. O quando definì lo Zanzotto di Dietro il paesaggio “un ritardatario, senza dubbio”. Senza accorgersi, però, allora (1959) e in seguito, che quel “ritardatario” aveva prodotto probabilmente il suo libro più autentico.

Altre volte, però, il contatto, piacevole o spiacevole, con l’altro produceva probabilmente il bisogno, e il piacere, di una sorta di autodifesa, o di autoaffermazione, al di fuori di ogni regola, l’esigenza di distinguersi dagli altri, o di contrastare altri, anche a costo di deformarne le affermazioni, come quando, in Verifica dei poteri, finse di non aver capito le parole di Sanguineti sulla necessità che l’avanguardia diventasse un’arte da museo. O quando, proprio lui, l’anarchicheggiante e anticomunista Fortini, in Le avanguardie e il presente, accusò i poeti “Novissimi” (ben sapendo che almeno nel caso del comunista libertario Sanguineti  era vero il contrario) di esibire come “caratteristica più ostentata (…) il rifiuto di ogni ‘impegno’ ideologico o politico, anzi una dichiarata adesione allo spirito ‘manageriale’ dello sviluppo capitalistico”. Posto che questa affermazione non fosse il risultato di un abbaglio, Fortini però sapeva benissimo che i Novissimi avevano trasferito l’impegno nella costruzione di testi che, sul piano linguistico, erano radicalmente antagonistici all’”usata poesia”.

Un veggente, dunque, quando lo era, pur con qualche carenza; e, quando lo era, un mistificatore, psicologicamente coatto, s’intende. Del resto è stato Gianfranco Contini a informarci che il grande Ernst Robert Curtius giudicava Dante “ein grosse Mystificator”. Discorrendo di Fortini, ha scritto con molta finezza, anche se, forse, con eccessiva generosità, Pier Vincenzo Mengaldo:

 

Una profonda e segreta riserva, la riserva religiosa e marxista dell’utopismo, gli avrebbe vietato, anche negli anni di più generoso impegno storico, di trattare veramente il reale presente come cosa salda. Stretto fra il cumulo di un  passato che lo grava e come lo stratifica e un futuro di cui, più che anticipazione, è rovescio negativo, il futuro non può apparirgli che con un volto emblematico, e più spesso spettrale.

 

Premesso che l’utopismo a volte non è altro che intolleranza del presente, non ci si può non chiedere se l’utopismo di Fortini fosse davvero nobile impossibilità “di trattare veramente il reale come cosa salda”,o fosse invece rispettabile intolleranza del reale.



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