Giovanni Zoda
Avvento, cm 21×35, olio su tavola, 2016
Nell’universo assai articolato e fittamente popolato dei visual studies contemporanei (nel panorama italiano una ricca prospettiva è offerta dallo studio di Pinotti, Somaini, 2016; a questo lavoro si rinvia per una ricognizione della bibliografia sterminata sui visual studies), una rubrica di dimensioni ragguardevoli è senz’altro costituita dagli studi dedicati a quei fenomeni che possono essere classificati sotto la categoria degli iconotesti o dei foto-testi, e dall’enumerazione e ricognizione della loro complessa tipologia e genealogia teorica (al proposito cfr. Cometa, Coglitore, 2016; per i nostri fini sono di estremo interesse Horstkotte, Leonhard 2006; Von Steinaecker, 2007).
Pur rinunciando a ripercorrere questa casistica – e a maggior ragione a fare il tentativo di arricchirne il repertorio – si può facilmente rilevare come il fenomeno dell’ibridazione fra un testo letterario e la riproduzione fotografica di un’immagine appaia sin da subito e quasi “spontaneamente” offrirsi a una molteplicità di approcci differenti, anzitutto chiamando in causa lo stesso statuto letterario di quel testo (vale a dire la sua “purezza” in senso epistemico e la sua possibile rilevanza estetica), mettendo in discussione l’autorialità del testo e rinviando a una pluralità di voci in esso attive (e ciò tanto nel caso in cui il testo presenti l’inserzione di un’immagine il cui autore è differente dall’autore del testo, quanto nel caso in cui l’autore stesso differenzi e duplichi il proprio intervento autoriale dalla parola alla produzione d’immagine), chiamando in causa una “spazialità” del testo assai differente dalla pura e semplice impaginazione tipografica ed ancora – con ciò stesso, con questa stessa messa in opera della spazialità come criterio costruttivo, ma poi anche su livelli assai differenti – rinviando alla centralità della memoria come funzione a partire dalla quale si costruisce la stessa interazione fra testo e immagine.
Si tratta dunque, come si vede, dell’assunzione di alcune categorie fondative del fatto letterario (la sua stessa letterarietà, l’unicità e – cosa differente – la singolarità dell’autore, la relazione fra testo e voce, la memoria come fatto immanente al testo), che ne comporta una sorta di “dinamizzazione critica” che non cessa di essere tale, ed anzi produce uno strato ulteriore di problematicità del senso, nel caso in cui il rapporto fra parola e immagine venga impostato secondo una modalità reticente piuttosto che dialogante o addirittura esplicativa.
Ben al di là di una qualsiasi relazione come quella fra didascalia e illustrazione, ben al di là anche del più volte teorizzato “dialogo incessante” fra i due media, sono le dinamiche interne ai singoli registri operativi ad essere messe alla prova e a fare di tutti i media, secondo quanto a suo tempo già evidenziato da W.J.T. Mitchell (si veda ad es. Mitchell, 2008: 81-95), dei mixed media. Un valore massimo tendenziale sarà in questo senso immaginabile nel caso in cui semplicemente si assista alla cancellazione di uno dei due registri, nel suo capitolare a fronte o a vantaggio dell’altro. Ovvero, si potrebbe proseguire, nel suo essere “assunto come compito” dall’altro. Compito di che cosa? Di quale condizione ci parla la sequela senz’altro piuttosto up to date di “visual studies”, “memory studies”, “intermedialità” e “intertestualità”, che anche queste righe per parte loro e sia pure in tono minore corteggiano?
Se è vero che la nostra epoca, secondo l’indicazione celebre di Foucault (Foucault, 1998: 307-316), tende a organizzare la propria coscienza storica in forma di giustapposizione spaziale piuttosto che di consecuzione temporale, potremo allora aggiungere che, considerati in questa luce, i foto-testi costituiranno un luogo saliente per una riflessione sull’intreccio fra una spazialità così intesa e la memoria testuale, d’accordo con quanto osservava già nel 1990 Renate Lachmann, secondo la quale «la memoria del testo è la sua intertestualità» (Lachmann, 1990: 35). La dislocazione spaziale, configurandosi nelle strategie di intermedialità e intertestualità del meccanismo letterario, emergerà allora in maniera saliente giusto nelle zone di opacità che stanno a rappresentare nel testo le commessure fra i registri mediali ed espressivi, costituendo altrettante zone di indecidibilità della memoria.
La scrittura di W.G. Sebald (si veda, ai nostri fini, il recentissimo Ohlschläger, Niehaus 2017, specie il capitolo 19, Bild-Text, di Winckelvoss, pp. 114-121, ed il capitolo 20, Intertextualität/Vernetzung, di Gray, pp. 122-129) costituisce notoriamente una variatio raffinatissima ed assai fortunata dei temi e delle modalità d’interazione qui velocemente riassunti, ed è da osservare come, spesso, l’autore ponga per così dire se stesso ed il lettore sulla soglia, in una posizione che, in relazione allo sviluppo del nesso narrativo, si potrà forse definire in certo modo marginale eppure di certo non eticamente neutrale, dando luogo a una ricerca vertiginosa che costituisce uno degli esiti più potenti della letteratura contemporanea.
Penso a due di queste “occasioni liminali” nella scrittura di Sebald: per un verso – quasi in apertura di uno dei suoi libri in prosa più complessi e più ricchi giusto sul piano iconotestuale, Die Ringe des Saturn – mi riferisco alla fotografia terribilmente povera, intrinsecamente opaca appunto, che non mostra nient’altro «se non un lembo incolore del cielo nel riquadro della finestra» (Sebald, 2010: 14), luogo opaco, raggiunto addirittura penosamente – «mi levai in piedi, reggendomi con fatica al davanzale della finestra» (Ivi: 15) -, che costituisce il vero punto di partenza del “pellegrinaggio inglese” in quel libro intrapreso da Sebald, ma direi della sua personale storia naturale della visione e della parola.
Se non vale dunque come luogo del ricordo – Andenken, anche nel senso messo in luce criticamente da Walter Benjamin (Cfr. ad es. Parco centrale, in Benjamin, 1982) – e nemmeno come anello di trasmissione del dialogo intermediale, l’immagine tecnologicamente low-fi e percettivamente povera segnala appunto quel che vorrei definire una soglia interna nei regimi di costruzione del senso, invitando a quella riscrittura, quel riattraversamento, quel supplemento d’indagine (Nachträglichkeit, sarebbe il termine tedesco da circoscrivere) che è in senso proprio lo strumento metodico del pellegrinaggio di Sebald.
Se l’opacità di questa visione, il non poter vedere, paradossalmente apre una delle più straordinarie esplorazioni del corpo dell’immagine offerteci dalla letteratura degli ultimi decenni, una strategia forse ancor più radicale appare in opera nel primo libro di Sebald, il poemetto Nach der Natur (Sebald, 2009), nel quale la descrizione della pala d’altare di Lindenhardt di Matthias Grünewald viene affidata a una procedura tipicamente ecfrastica per mezzo della quale i versi si fanno carico dell’immagine pittorica, che viene però offerta alla considerazione del lettore solo al termine di un doppio procedimento di negazione e di chiusura:
Chi nella parrocchiale di Lindenhardt
accosta [zumacht] le ante dell’altare
e rinserra [verschließt] nella loro dimora
le lignee figure intagliate,
vedrà sul pannello sinistro
San Giorgio venirgli incontro [dem kommt … entgegen].
Torniamo ancora alla nostra domanda di pocanzi: quale uso del testo letterario è qui in atto? Ovvero, quali funzioni di quali forme sono qui presentate e revocate criticamente nella polarità generata sul puro piano stilistico-testuale dalla descrizione verbale di questo duplice atto di chiusura cui fa seguito la quasi spontaneità del presentarsi dell’immagine di san Giorgio, che porta nella propria figura il volto di Grünewald ed il nome dello stesso Sebald? È dunque tempo di formulare l’ipotesi da cui muove questo contributo, ipotesi del resto anticipata nel suo stesso titolo: la molteplicità ed indecidibilità delle voci agite nella sovrapposizione verticale dei media e dei livelli testuali configura l’opera di Sebald come un paradossale Gesamtkunstwerk critico, come critica immanente, ovvero effettualmente messa in atto, alla possibilità dell’opera d’arte totale.
In questo senso, Sebald si trova a condividere uno spazio teorico che nella nostra contemporaneità è stato intensamente frequentato soprattutto da chi si è interrogato sulle possibilità del visivo e sulle forme di intermedialità che appunto nello sguardo e nel corpo della forma visiva si aprono. Mi riferisco a nomi come Hermann Nitsch, Anselm Kiefer, Christian Boltanski, Joseph Beuys (sulla funzione dell’opera di Beuys in rapporto a questo tema si veda l’articolo di Storch, Gesamtkunstwerk, specie pp. 786-788. Il concetto è addirittura centrale nel caso di Nitsch; cfr. almeno Karrer 2015. Il discorso in relazione a Kiefer sarebbe assai più complesso, e peraltro probabilmente anche più prossimo alle motivazioni profonde che si ritrovano nella stessa posizione di Sebald; mi limito a ricordare qui l’influsso che, sul piano biografico, proprio Beuys giocò nel determinare l’incrocio fra verbale e figurativo nell’opera del giovane Kiefer, su cui resta fondamentale Arasse, 2012. Si ricordi ancora la presenza di Kiefer nella grande mostra tematica del 1983, per la quale si veda Szeemann 1983. Sebald era un notevole conoscitore dell’arte contemporanea, ed anche il nome di Boltanski – peraltro presente nel 2012 alla mostra viennese Utopia Gesamtkunstwerk, che esplicitamente prosegue il lavoro della mostra del 1983-; cfr. Husslein-Arco, Strinbrügge, Krejci, 2012 – è fra quelli significativi nella sua geografia intellettuale; si veda in breve in proposito Michalsky, 2012: 251-275).
Basterebbe, a questo punto, affermare in maniera più o meno articolata, argomentata o erudita che l’oggetto del Gesamtkunstwerk critico sia la memoria, in modo specifico quella della Shoah, che la sua modalità compositiva sia per decompositionem della sovrapposizione dei registri mediali, e che lo snodo problematico a livello linguistico, stilistico, valoriale – e dunque il principale nesso ex negativo con il modello wagneriano quale delineato giusto nel senso del finale dei Meistersinger – sia la sacra arte tedesca? Ritengo francamente di no, per quanto tutte queste affermazioni abbiano le loro buone ragioni d’essere, e contribuiscano attivamente a determinare il senso dell’operazione di Sebald. Il senso, beninteso, senza che però in questo modo venga sufficientemente in chiaro – e questa è la prima obiezione a una soluzione come quella appena prospettata – l’uso della letteratura che peculiarmente è dato nell’operazione di Sebald.
Abbiamo detto di un compito che appare competere alle diverse pratiche mediali (starei per dire azioni) e che sembra venire in luce in modo particolarmente evidente proprio in condizioni di opacità non solo delle “normali” funzioni di trasmissione proprie del medium, ma addirittura di dichiarato impedimento della sua stessa funzione di dialogo intermediale, e dunque si potrebbe dire nel caso di una sospensione della sua funzione tout court, senza che però questo comporti un primato della cosiddetta “forma artistica”.
[Estratto del saggio: S. Tedesco, “Intermedialità come Gesamtkunstwerk critico. Appunti sul visuale nella scrittura di W.G. Sebald”, in A. Rabbito (a cura di), La cultura visuale del XXI secolo. Cinema, teatro e new media, Meltemi, Milano, di prossima pubblicazione]
Bibliografia:
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M. Foucault, Des espaces autres, in “Architecture, Mouvement, Continuité”, n. 5, 1984; ed. it. in Id., Archivio Foucault. 3, Feltrinelli, Milano 1998.
S. Horstkotte, K. Leonhard (a cura di), Lesen ist wie Sehen: intermediale Zitate in Bild und Text, Böhlau, Köln 2006.
A. Husslein-Arco, B. Strinbrügge, H. Krejci, Utopia Gesamtkunstwerk, Walter König, Köln 2012.
M. Karrer (a cura di), Hermann Nitsch – Das Gesamtkunstwerk des Orgien Mysterien Theaters, Walter König, Köln 2015. D. Arasse, Anselm Kiefer, Editions du Regard, Paris 2012.
R. Lachmann, Gedächtnis und Literatur, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1990.
T. Michalsky, Zwischen den Bildern. W.G. Sebalds Gewebe der Erinnerung, in P. Geimer, M. Hagner (a cura di), Nachleben und Rekonstruktion: Vergangenheit im Bild, Paderborn, München 2012.
W. J. T. Mitchell, I media visuali non esistono, in Id., Pictorial turn. Saggi di cultura visuale, ed. it. duepunti edizioni, Palermo 2008.
C. Ohlschläger, M. Niehaus (a cura di), W.G. Sebald. Handbuch. Leben – Werk – Wirkung, Metzler, Stuttgart 2017.
A. Pinotti, A. Somaini, Cultura visuale. Immagini, sguardi, media, dispositivi, Einaudi, Torino 2016.
W. G. Sebald, Die Ringe des Saturn (1995), Fischer, Frankfurt am Main 20079; ed. it. Gli anelli di Saturno, Adelphi, Milano 2010.
W. G. Sebald, Nach der Natur. Ein Elementargedicht (1988), Fischer, Frankfurt am Main, 20084; ed. it. Secondo natura, Adelphi, Milano 2009.
W. Storch, Gesamtkunstwerk, in K. Barck, M. Fontius, D. Schlenstedt, B. Steinwachs, Fr. Wolfzettel (a cura di), Ästhetische Grundbegriffe, vol. 2, Metzler, Stuttgart und Weimar 2001.
H. Szeemann (a cura di), Der Hang zum Gesamtkunstwerk. Europäische Utopien seit 1800, Sauerländer, Aarau und Frankfurt am Main 1983.
T. Von Steinaecker, Literarische Foto-Texte. Zur Funktion der Fotografien in den Texten Rolf Dieter Brinkmanns, Alexandre Kluges und W. G. Sebalds, Transcript, Bielefeld 2007.