SULLA SPECIFICITÀ DELLA DEPORTAZIONE FEMMINILE TRA RESILIENZA E DESTAURAZIONE

La condizione delle donne, in particolare di quelle che furono deportate ad Auschwitz – scrive Primo Levi nella Prefazione a Il fumo di Birkenau di Liana Millu – «era assai peggiore di quella degli uomini». Subito dopo adduce una serie di motivi a sostegno di questa sua asserzione. Tra cui quello, per nulla secondario e del tutto specifico per Birkenau, relativo al fatto che, dice Levi, le ciminiere dei crematori erano «situate nel bel mezzo del campo femminile». E con ciò si riferiva forse alla Sezione BIIc che si trovava tra il Krematorium III e il Krematorium IV, riservata dal giugno 1944 ai prigionieri ebrei, soprattutto alle donne dell’Ungheria. Attingiamo questi elementi dal saggio di Carlo Saletti, La voce dei sommersi, che raccoglie i manoscritti degli Heizer, cioè dei “fuochisti”, dei componenti del Sonderkommando, documenti che sono stati ritrovati sotto terra all’interno di borracce e di bottiglie. Molto interessante a tal riguardo il contributo che Alessandra Chiappano ha inserito nel testo collettaneo dedicato alla figura di Luciana Nissim, deportata ad Auschwitz. Dopo il Lager, tra l’altro, la Nissim ha lavorato come pediatra e psichiatra all’asilo nido aperto all’interno dell’Olivetti, a Ivrea.

Dopo aver letto le toccanti testimonianze di alcune deportate, ci sembra di poter dire che esse, le donne, assai di più che gli uomini, si opponevano alla loro destaurazione. Già, perché i carnefici vollero essere ricordati nella storia: e noi li ricordiamo, dobbiamo purtroppo ricordarli. Vollero essere ricordati sia per la loro famigerata acribia, vale a dire per la loro “precisione” (lo sottolineava emblematicamente il poeta Paul Celan in Todesfuge: Der Tod ist ein Meister aus Deutschland sein Auge ist blau / Er trifft dich mit bleierner Kugel er trifft dich genau: il maestro che viene dalla Germania, la morte dall’occhio blu, ti colpisce precisamentegenau – con la sua pallottola di piombo), sia per la loro impareggiabile acrimonia o malvagità nell’aver tentato di destaurare in tutti i modi più disumani, possibili e impossibili, ponderabili e imponderabili, la mirabile e miracolosa compattezza del corpo e della carne umana.

Quei torturatori, che per la loro esaltazione fissata, direbbe Binswanger in riferimento al suo saggio sulle Forme di esistenza mancata (1956), per la loro idea fissa e dimentica dell’umanità, in loro e negli altri, hanno creduto di ridurre l’essere umano a vittima. Quei violenti instauratori della loro folle restaurazione, nonostante tutta la loro scrupolosità nel progettare quella destaurazione, hanno dimenticato che lo staurós consiste nella struttura indistruttibile della “croce” (staurós in greco vuol dire “croce”), croce o incrocio che misteriosamente solidifica la carne in tutti quei corpi massacrati. Ebbene sì, essi, quei violentatori come quant’altri mai, leggendo soprattutto le pagine di Pelagia Lewinska sui suoi Venti mesi ad Oświęcim (1946)[ii], dovrebbero piuttosto meravigliarsi ed ammirare la forza misteriosa, divina e miracolosa che si sprigionava da quei corpi staurici o staurofori, squartati e dilaniati!

Essi dicevano che nessuno avrebbe mai creduto nei racconti strazianti dei sopravvissuti alla violenza pura. Ma il fatto è che nemmeno loro stessi credevano a quanto vedevano i loro occhi, osservando quei poveri “cristi” vibrare di dolore dinanzi ai loro sguardi glaciali, neppure loro stessi credevano che al fondo dell’essere umano, all’interno di quei corpi ci potesse essere quella forza, quella resistenza, quella resilienza, insomma quello staurós, quel puro elemento staurico.

Sia la Nissim che la storica Chiappano insistono molto sulla specificità dell’esperienza concentrazionaria femminile e sul corpo della donna. Commentando un passo  della storica statunitense Myrna Goldenberg, la Chiappano accenna alla «specificità delle risposte femminili alla persecuzione e alla deportazione». Tali risposte – scrive – «sarebbero state migliori, soprattutto sul piano umano, di quelle maschili». Fra le strategie di sopravvivenza ci sarebbe la «capacità di crearsi legami stabili, formando delle “famiglie artificiali”»[iii]. Queste risposte determinerebbero, secondo la Goldenberg, la maggiore “flessibilità” e “resilienza” della donna rispetto agli uomini.

Ciò detto, come si può continuare tranquillamente a vivere nello stesso mondo in cui alcuni uomini commisero violenze simili? Come si può continuare a vivere pur sapendo quanto è accaduto, lasciandosi trascinare dalla vita come se quel malvagio tentativo di destaurazione – che Luciana Nissim definisce «la più abietta colpa dei nazisti» – non fosse mai stato messo in pratica? Eppure viviamo. Continuiamo a vivere. Incomprensibile! Così come è incomprensibile alla sua radice l’intera vicenda concentrazionaria. Dinanzi a questa inaudita corruzione umana, a questa grande malvagità degli uomini sulla terra (rabah ra‘at ha’adam ba’haretz) – giacché «ogni disegno concepito dal loro cuore (machashavah in ebraico significa “pensiero”, “riflessione”)», per riprendere le parole del Bereshit, del Genesi (6, 5), non era altro che male” (kol yetzer machshevot libo raq ra‘ kol-hayom) – dinanzi a questa illimitata perversione umana non ci dovremmo forse attendere da Dio un altro suo pentimento, un nuovo diluvio, un ulteriore sterminio purificatore? Uno sterminio – per parafrasare il Qohèlet – evocato da un precedente sterminio?

Il termine destaurazione non esiste. Ma se il normale linguaggio non riesce ad esprimere quelle esperienze devastanti, se queste oppongono al discorso sensato un vuoto che solo la parola del poeta sa abitare, allora, come i poeti, bisogna inventarne di nuove, che sappiano almeno far risuonare, far vibrare un’eco dall’interno di quel vuoto angoscioso.

Ciò per dire, come abbiamo accennato, che ci sembra di poter ritenere che a dispetto della sua così tanto decantata fragilità, la struttura del corpo femminile, sebbene anche Levi in quella Prefazione parli di «minore resistenza fisica», sia viceversa più tenace e resiliente di quella degli uomini. Una tenacia e una resilienza maggiori semplicemente perché la struttura del corpo femminile sembra contenere in sé una sorta di pneuma, di spirito vitale, di forza spirituale, una ruàḥ del tutto assente nel corpo dell’uomo. Questa forza vitale è qualcosa di spirituale che si oppone e che anzi reagisce, come una resilienza, a ciò che vi si oppone. Non è nulla di psichico o di riconducibile alla psyché, all’anima, giacché il pneuma può farne a meno. Né tanto meno si tratta di qualcosa che si radica nella ragione o, peggio ancora, nell’intelletto. La forza vitale e resiliente che abita come una ruàḥ, come un soffio vitalizzante la struttura del corpo della donna è una forza che si contrappone naturalmente e istintivamente alla destaurazione, ossia allo svuotamento o alla devastazione di quel corpo (devastare vuol dire “rendere vuoto”, “desertificare”), si contrappone all’annientamento o alla Vernichtung della struttura corporea umana femminile. Ebbene, questa forza è insita nello staurós. Vale a dire nella croce, che è il simbolo della vita risorgente da ogni morte.

Lo staurós femminile è l’elemento vitale, profondo e naturale che si contrappone a ogni destaurazione, “resiliando”, cioè rimandando indietro l’oppositore. Grazie ad esso, la percossa subìta si trasforma in ripercussione, l’azione in reazione. Proprio come il Dio schellinghiano o il Dio ebraico, lo staurós contiene in sé anche il suo contrario. In Schelling il male è in Dio, è armonizzato con Dio. Il Dio ebraico pur essendo e pur essendo uno e unico, non si lascia dire (se non come tetragramma: YHVH, Yahwèh), oppure si lascia dire, ma esprime talvolta anche il contrario di sé, ossia la molteplicità di Elohìm. Nello stesso modo la resilienza contiene in sé anche la fragilità.

Lo staurós rappresenta, insomma, la forza della fragilità. È la forza contro cui rimbalza ogni attacco contro di essa. Questo vuol dire, infatti, resilire: “rimbalzare”. Sia nel senso del far saltare indietro, nel respingere l’attaccante, sia nel saltare da una pietra all’altra attraversando il guado, un saltare sopra l’abisso, un sopra-v-vivere. E ciò nello stesso modo in cui Nietzsche, in uno dei suoi Ditirambi a Dioniso, diceva: man muss Flügel haben, wenn den Abgrund liebt, bisogna avere ali, se si ama l’abisso. Lo staurós, la croce che struttura il corpo resiliente della donna, corrisponde a queste leggere ma possenti ali nicciane, le quali le consentono di saltare – Nietzsche direbbe “danzare” – sull’abisso, da un dolore all’altro.

Lo staurós è pertanto ciò che sta e che si leva contro (deriva dal verbo hístēmi, che significa fare, far stare, levarsi, fermare), contrapponendosi ad ogni tipo di avversione. In quanto hístēmi, lo staurós è dunque da un lato ciò che si innalza e si erge – proprio come una croce – contro tutto ciò che tende ad annientarlo; dall’altro esso è anche l’histós, il “tessuto”, la struttura che sta e che soprattutto “è” (estín) a fondamento del corpo femminile. Innegabile la vicinanza, soprattutto per Heidegger, tra l’estín greco e l’ist tedesco. Per il filosofo di Messkirch e amico della Arendt, infatti, la lingua tedesca discendeva dal greco. Ma l’hestía per gli antichi Greci non è solo il centro puro e intangibile attorno cui ruota anfidromicamente tutto ciò che vorrebbe occuparlo e dominarlo. Essa è anche il nome della dea Hestía, il cui nome, secondo il Cratilo platonico, deriva da essía o da ousía, che significa “sostanza”, sia nel senso dell’immobilità parmenidea, sia nel senso diveniente eracliteo.

Lo staurós è pertanto il simbolo dell’essere che, per natura e senza calcolo intellettuale, si contrappone ad ogni suo annientamento, ad ogni Nichts, ad ogni devastante Vernichtung. È la “croce” a cui è appesa la vita di Gesù, ossia di colui che dona la propria per gli altri. Proprio come Etty Hillesum. È l’elemento insopprimibile e inestirpabile, e quindi eterno. È insomma la vita che ontologicamente si oppone, che lotta e alla fine prevale sulla morte. Ne danno una chiara testimonianza le parole di Elisa Springer o quelle di Bianca PaganiniMori.

 

 

Si tratta degli atti di un seminario tenutosi a margine di una mostra dedicata a Luciana Nissim e allestita nel 2010 prima a Torino, poi a Fossoli e infine a Roma, al Quirinale. Il titolo della mostra era A noi fu dato in sorte questo tempo 1938-1947, mentre il titolo del testo che raccoglie quegli atti, curato da Alessandra Chiappano e da Anna Ferruta, è Luciana Nissim Momigliano. Una vita per la psicoanalisi. Il paziente miglior collega, stampato a cura del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica e dell’Archivio di Stato, Roma 2012.

[ii] Sia questo testo della Lewinska sia il testo della Nissim, Ricordi della casa dei morti, erano stati pubblicati nel 1946 dalla casa editrice Vincenzo Ramella di Torino, e recava significativamente come titolo Donne contro il mostro.

[iii] A. Chiappano, «Medico ad Auschwitz», in Luciana Nissim Momigliano, cit., pp. 54-55.



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