L’origine differenziata: materiale d’archivio e documentario

 

 

 

 

Marcel Duchamp, ready-made, Man Ray, e poi Andy Wharol, collage, pastiche, Jeff Koons. Solo qualche esempio che traccia quel fil rouge che dall’avanguardia dadaista fino all’arte postmoderna si appropria delle pratiche del riciclo, del ri-uso creativo, della manipolazione del materiale originario al fine di creare qualcosa di nuovo, originale, per l’appunto. Facendo ancora un passo indietro, tutta la storia dell’umanità sembra caratterizzata da un’esigenza di appropriarsi di fonti passate, «il modello evolutivo è dato da ripetizione-innovazione» (Campanelli, 2015). O ripetizione e differenza. Nelle pratiche del riciclo artistico è necessario un ripensamento della distinzione tra originale e copia, in quanto una forte risemantizzazione del materiale utilizzato porta alla nascita di un’opera nuova, del tutto autonoma, dove l’originalità risiede senz’altro nella creazione di un nuovo orizzonte di senso. L’originalità non è più legata ad una nascita, alla creazione ex-novo, ma al derivato, alla possibilità di un nuovo sguardo, che si serve del già-fatto, ma solo per scandagliarlo, a favore di una riscoperta. L’origine così non è più una riappropriazione del proprio, ma − in termini nietzschiani − uno smascheramento delle pulsioni nascoste dietro ogni pensiero apparentemente trasparente, diventa zeitlos, si costituisce solo nel ritardo della sua manifestazione, incarnando la nozione freudiana di après-coup, che nega l’esistenza di un’origine come fonte effettiva, ma la rende possibile solo come immagine di memoria che si trasforma in trauma solo posteriormente (Didi-Huberman, 2002).

Campanelli intravede nella pratica del remix, inteso come un’ibridazione di fonti, materiali, soggettività e media, un sintomo dell’avvento di un’estetica diffusa, «ovvero quel salto quantico che ha condotto l’umanità da un ambito ben distinto e marcato dell’estetico al “tutto estetico” dei giorni d’oggi». Attraverso la manipolazione di oggetti consunti, vecchi, di “seconda mano”, tutti hanno la possibilità di creare qualcosa di nuovo, comporre, rismontare e montare, in un’operazione che coinvolge diversi livelli dell’esistenza. E anche il campo visuale non è esente da quella che sembra essere una vera e propria moda, un fenomeno di massa che rischia di devalorizzarsi a causa del pericolo di una banalizzazione estetica, di una deriva nostalgica del passato rievocato.

Anche se questa tendenza, dunque, quella del riutilizzo del materiale d’archivio, è vecchia come il cinema e annuncia già i primi segni di vita con le varie prises de vue dei fratelli Lumière, assemblate tra loro in modo pseudonarrativo, in questo particolare periodo storico però trova spazio per un nuovo dibattito alimentato dalla sfida che il post-moderno pone, nel momento in cui è possibile interagire produttivamente, adesso come non mai,  con un inventario estremamente allargato di immagini.

È alla luce di questo quadro che si può intravedere una possibile eziologia di questa moda del riuso di vecchie immagini, in particolar modo nelle pratiche documentaristiche, come forte reazione allo svuotamento di senso che la civiltà dell’immagine impone, una civiltà che appare come «una babele iconica priva di possibilità di significare, di comprendere e di interpretare» (Crescimanno, 2015). L’emergere alla ribalta del documentario a base d’archivio risponde così ad una saturazione delle immagini, impone nuove sguardi. E mentre la tecnologia infuria nella pretesa di costituire una civiltà dell’iper-ricordo, assecondando il dilagare del «mnemotropismo» (Cati, 2013), ovvero quella vera e propria ossessione nei confronti della memoria, il cinema invece risponde al desiderio contemporaneo di presentificare ogni esperienza, modellando la memoria come una scienza spettrale, una scienza dei fantasmi, spostando l’ago della bilancia sul concetto di oblio. Da ciò che viene dimenticato – e che però riesce a sedimentarsi all’interno del fotogramma – sgorga il flusso del tempo filmico, come qualcosa di vorticoso, instabile, sfuggente. Pratiche documentarie come quelle messe in atto dal found footage fanno i conti con un materiale cercato, trovato, o scoperto per caso in qualche soffitta abbandonata, con una memoria che diventa organica, materica, nel deterioramento della pellicola (basti pensare ai film di Gianikian e Ricci Lucchi), nella polvere sedimentata, con un ripensamento dell’immagine che, ricontestualizzata, svela qualcosa di nuovo sull’atto stesso del guardare. Esperienze in cui il procedimento lavorativo a monte del film diventa parte costitutiva dell’opera stessa, in cui le indagini meticolose di recupero del materiale diventano percorsi psicoanalitici, rielaborazioni di ferite d’infanzia, come nel lavoro di Alina Marazzi. L’attuazione di una ripetizione-differenziata che è anche ritorno del rimosso. Si scava così nel ventre di una memoria inconscia, riesumando immagini spettrali, non per un gusto nostalgico, ma come dimostrazione della potenza delle sopravvivenze temporali insite nel fotogramma. È il tentativo, dunque, tramite il collage (Wees, 1993), di far emerge l’invisibile e l’indicibile, invocando quella pazienza dello sguardo che si pone come antidoto ad una banalizzazione estetica imperante nel dominio massmediatico.

Il documentario a base d’archivio, dalla sua nascita fino ad oggi, ha mutato notevolmente le sue coordinate estetiche di riferimento, in balia di quegli umori storici, sociali e culturali che lo nutrono. Spesso la difficoltà ad affermarsi nel circuito commerciale del “grande cinema”, lo ha recluso in ambienti marginali, nelle periferie di una visione elitaria, bistrattato da produzioni e pubblico in un clima di indifferenza e ignoranza, già come metteva in luce Lizzani nel 1951 su “Filmcritica”, denunciando la speculazione scatenata dal premio governativo, le mafie dei grossi produttori nella gestione dei finanziamenti ministeriali, l’ostilità delle commissioni ai documentari più coraggiosi. Continuare oggi a parlarne come di un corpo ferito, incompreso, il sesso debole del cinema, per quanto si avvicini al ritratto di una realtà innegabile, di certo sortisce l’effetto opposto di un suo rilancio, di una possibilità di travalicare le frontiere dell’invisibilità, delle zone d’ombra di un grande pubblico. È in questo modo, anzi, che viene alimentato un processo di totale sradicamento, un’ascesa, in termini proprio sacrali, verso una dimensione ultraterrena, ultracinematografica. Sono le cicatrici non rimarginate che si porta addosso, le ferite di un’esclusione, che lo trasformano in un cinema-altro?

In origine l’uso del materiale d’archivio nel documentario, in particolar modo in Italia, trova un humus fertile in una narrazione dalle forti valenze politiche. Gloria (1934), commissionato dall’Istituto Luce e realizzato da Roberto Omegna, viene considerato uno dei primi documentari “di montaggio” quasi interamente costruito con i numerosi materiali che erano stati girati da diversi cineoperatori nel corso della Prima Guerra Mondiale, e montati «secondo i dettami dell’ideologia fascista, che imposero vistose riscritture storiche, per esempio l’assenza della disfatta di Caporetto» (Rendi, 2013). In Russia una straordinaria montatrice come Ėsfir’ Šub nel 1927, per il decimo anniversario della rivoluzione russa, costruisce il film La caduta della dinastia dei Romanov (Падение династии Романовых)utilizzando esclusivamente materiale di repertorio proveniente dalla filmoteca privata dello zar e da altri materiali girati dal 1912 al 1927.

Divulgazione, informazione, propaganda: sono termini che definiscono il campo semantico entro cui si muove il documentario a base d’archivio in questa prima fase, quello che Bazin definiva “il documentario ideologico di montaggio”, a proposito dell’operazione compiuta in Why we Fight? (1942-1945). L’intento pedagogico, così, influenza le modalità di costruzione del racconto filmico, tramite una subordinazione dell’immagine alla struttura logica del discorso, determinando un capovolgimento per cui «l’essenziale del film non sta nella proiezione, ma nella colonna sonora» (Bazin, 1958). Ed è così che si imporrà nell’immaginario collettivo questo tipo di documentario − pregiudizio che permane ancora oggi in larga misura − un prodotto classico, storico, un documentario di celebrazione, nella definizione di Sorlin, un filmato costituito da un testo scritto da eminenti e stimati storici di un determinato periodo, e in cui «immagini, suoni e testimonianze servono per illustrare un discorso che prende la cronologia come principio direttivo» (Sorlin, 1998).

È solo alla fine degli anni ‘60 che le immagini di repertorio vengono liberate, sia dalla necessità del didattico, aprendosi a nuovi ambiti di ricerca personale, sia da uno statuto di oggettività, nella crescente convinzione dell’alto tasso di manipolazione del montaggio e in una crescente diffidenza nei confronti dei documenti visivi, non più fatti reali tout court, ma frammenti, segni parziali e per questo ambigui. In questa direzione, l’archivio si trasforma in un luogo delle possibilità, il tempo per una sperimentazione, materiale che si congeda da una funzione illustrativa per diventare oggetto di rielaborazione artistica.

Il documentario contemporaneo solca le tracce di questa ricerca, in un percorso fatto di scarti, giri di boa, piccoli spazi di conquista nell’apertura a territori inediti, costituendo un panorama frammentario, discontinuo, ma libero da standardizzazioni e oggettività utopistiche. Non si tratta più di considerare l’immagine testimoniale come un oggetto morto, rinchiuso in un sarcofago, ma di confrontarsi con la sua linfa fantasmale. In questa direzione prende vita una forma di cinema che scardina l’idea di archivio come semplice organizzazione stabile della traccia. Come a dire che non basta «sfogliare un album di fotografie “d’epoca” per capire la storia che esse forse documentano. Le nozioni di memoria, di montaggio e di dialettica esistono per indicare che le immagini non sono né immediate, né facili da capire» (Didi-Huberman, 2009).



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