Contribuire al dibattito sulla secolarizzazione

 

 

 

 

 

 

«Contribuire al dibattito sulla secolarizzazione», così si conclude la recensione di Andrea Calzolari su Il Manifesto (Alias, 10 luglio 2016, p. 1) de Le Rovine di Costantin François Volney, che ho tradotto e curato insieme ad Andrea Tagliapietra (Mimesis, 2016). Infatti nella recensione di Calzolari si parla più di Karl Löwith che di Volney, o meglio si parla più della mia postfazione (Volney a Palmira. Le Rovine e il destino della civiltà, pp. 269-316) che inquadrerebbe la “filosofia della storia” di Volney alla luce di quello che è stato chiamato, in base alle preferenze, il “canone” o il “teorema” della secolarizzazione, e di cui Löwith è stato senza dubbio tra i maggiori promotori col suo celebre Meaning in History del 1949.

Calzolari sostiene che le tesi di Volney possano anche non essere condivise, «ma costringere Le Rovine nel quadro del modello storiografico di Löwith» rischierebbe di diventare una forzatura ermeneutica del testo, infatti come sarebbe possibile «interpretare in chiave di secolarizzazione un testo che pretende di descrivere il processo esattamente opposto, vale a dire la genesi e lo sviluppo di quelle stesse idee religiose di cui sarebbe solo una versione laicizzata?». Calzolari, inoltre, sottolinea la difficoltà di dimostrare la derivazione della secolarizzazione dall’escatologia cristiana «perché la convinzione, cui aderisce Volney, che le religioni hanno origine della paura e dell’ignoranza risale all’antichità classica, tanto che è attestata, per esempio, in Petronio e in Stazio la massima famosa del primus in orbe deos fecit timor che ha ispirato tutto il moderno pensiero ateo».

Preciso subito che il tentativo di includere Volney nel canone della secolarizzazione occidentale, così per variare un noto titolo di Harold Bloom, era stato proposto ben prima del sottoscritto e già nel 1968 ne Il tramonto dell’illuminismo da Sergio Moravia (Laterza, 1968), che è da annoverare tra i massimi studiosi dell’illuminismo dei philosophes e del tardo-illuminismo degli idéologues, di cui Volney faceva attivamente parte. Secondo Moravia, «il fatto particolare della Rivoluzione francese veniva inserito in una prospettiva di dimensioni cosmiche. Ad essa spettava infatti, nelle pagine delle Ruines, di promuovere l’opera di régénération metafisicamente e storicamente necessaria per eliminare abusi ed ingiustizie, per rimettere l’umanità sul verace cammino del progresso illuminato dalla philosophie. Poche altre volte, fin allora, la Rivoluzione in atto era stata consacrata, o mostrata nel suo significato escatologico meglio che in queste pagine di Volney». Per Moravia, l’idéologue non evidenzia soltanto la necessità filosofica del processo rivoluzionario, infatti «l’escatologismo delle Ruines» delinea anche uno stato di tipo costituzionale e rappresentativo che si rifà al modello proposto da Condorcet (pp. 166-167).

Dato che proprio grazie all’illuminismo l’ipse dixit non è più per noi un valore, nonostante Moravia sia intellettuale riconosciuto in Italia e all’estero, è sufficiente leggere le pagine che Volney dedica alla Rivoluzione francese, per accorgersi come essa sia salutata come un vero e proprio evento salvifico e palingenetico. Volney, infatti, racconta di sentire un «grido di libertà» contro l’oppressione, proveniente da una nazione del vecchio continente, dalla Francia rivoluzionaria:«Ancora un giorno, ancora una riflessione e un movimento immenso [mouvement immense] nascerà. Un nuovo secolo [un siècle nouveau] sta per iniziare! Un secolo di stupore per il volgo, di sorpresa e di paura per i tiranni, un secolo di affrancamento per un grande popolo e di speranza per tutta la terra!» (C.-F. Volney, pp. 132-133).

Che poi Volney giacobino non lo sia mai stato (anzi dai giacobini fu incarcerato), e che sempre di più andrà moderando le sue attese di rinnovamento politico (collaborando col Direttorio prima e con Napoleone poi), fino ad essere tra i primi a criticare quella stessa idea di “storia” in cui aveva creduto nel biennio rivoluzionario, è certamente vero. Ma allora si dovrebbe insistere sulla  biografia matura di Volney e sulle sue Lezioni di storia (1825-1826),che sono, come Le Rovine,un altro “classico” dimenticato della filosofia della storia europea.

Ad ogni modo, restando a Le Rovine, la cosa che Calzolari sembra trascurare è che Volney nel 1789 non avrebbe potuto avere piena cognizione di quel processo in cui era completamente immerso, quel processo di secolarizzazione dell’escatologia cristiana nella Rivoluzione francese, processo che comincerà infatti a farsi espressamente consapevole solo un secolo più tardi con Friedrich Nietzsche e Max Weber. Perché la secolarizzazione è sia un evento storico sia una categoria ermeneutica. È appunto il tema, noto a chiunque si occupi di argomenti storiografici, della difficoltà della distanza temporale rispetto al proprio tempo storico. Come dire, ai posteri l’ardua sentenza. Infatti, che le idee religiose antiche derivino per Volney dagli astri del cielo (astralismo) (pp. 304-308 e sgg.), non significa che i moderni non le abbiano poi portate in terra (secolarizzazione). Non richiama infatti proprio questo binomio il titolo dell’ormai classico volume sulla secolarizzazione di Giacomo Marramao, Cielo e terra. Genealogia della secolarizzazione (Laterza, 1994)? “Cielo e terra”, e soprattutto “dal cielo alla terra”: questa è stata (ed è) la secolarizzazione nel suo significato propriamente filosofico. Certo il “cielo” di Volney è il cielo astronomico della natura e non il cielo divino dei sacerdoti, ma dopo che i sacerdoti trasposero per primi i movimenti degli astri nei loro miti religiosi, i moderni trasporranno a loro volta il cielo divino dei sacerdoti nella terra divina di tutti gli uomini. Anzi, chi volesse seguire l’atteggiamento critico di un tardo-illuminista come Volney, dovrebbe avere il coraggio di riportare la stessa terra divina dei moderni alla terra reale dei viventi, come gli illuministi avevano riportato il cielo divino della religione al cielo astronomico della natura. La categoria di secolarizzazione, infatti, al di là delle sue possibili declinazioni ideologiche e politiche (anche “tradizionaliste”), nasce come categoria illuminista, intimamente critica e smascherante i maneggi dei “chierici” di ogni epoca, ovvero anche di quei “chierici” moderni che sono stati  – non tutti ma molti – gli intellettuali.

Inoltre, anche le “religioni secolari” della rivoluzione e dell’utopia, proprio come ogni religione del passato, rispondono e strumentalizzano la paura e l’ignoranza da cui da sempre gli uomini sono mossi al cospetto dell’ignoto della vita, e proprio come la religione (cristiana) non fanno altro che rimandare la soluzione del nodo del dolore da cui originano in un futuro escatologico e redentore. Che poi questo futuro sia “terreno” (paradiso in terra) e non “ultraterreno” (paradiso in cielo), non cambia il fatto che esso si presenti come “assolutamente altro” rispetto al mondo quale esso è ed è sempre stato nel suo imprevedibile intreccio di negatività e positività. Che cos’è del resto il “principio speranza” della filosofia della storia se non il “principio piacere” che non ha saputo fare i conti con il “principio realtà”, e per questo rimandato in un futuro tanto immaginario quanto mortifero (il “principio di morte”) quando lo si vuole realizzare nel qui e ora del presente? Se la religione è stata l’“oppio dei popoli”, come diceva Karl Marx, è altrettanto vero che la rivoluzione è stata l’“oppio degli intellettuali”, come glosserà Raymond Aron.

E se di Löwith proprio dobbiamo parlare, come ci invita a fare Calzolari, allora sarà bene ricordare come di fronte alle speranze e ai timori assoluti di tutti coloro che, qualunque ne sia la ragione (il dolore? il delirio? il delirio del dolore?), con la realtà non sono stati e non sono in grado di fare i conti, egli proponeva, richiamandosi alle filosofie ellenistiche, un più sobrio nec spe nec metu, basato sulla consapevolezza del limite umano e aperto alla valorizzazione di quanto di buono esiste in vita al di là di ogni possibile congiuntura storica. Su questi argomenti Orlando Franceschelli ha scritto pagine fondamentali, dalla sua imprescindibile monografia su Karl Löwith. Le sfide della modernità tra Dio e nulla (Donzelli, 2008) al più recente Elogio della felicità possibile. Il principio natura e la saggezza della filosofia (Donzelli, 2014).

Perché allora di Volney non valorizzare proprio la saggezza naturalistica (che fa derivare la virtù dal piacere) o la teoria della decadenza delle civiltà (causata dalla smodatezza dell’ignoranza e della cupidigia) o la concezione moderata del progresso (che rimanda al paulatim progrediens di Lucrezio) o il repubblicanesimo (oppositore di ogni tirannia, da quella dei re e dei sultani a quelle di Robespierre e di Napoleone, col quale poi Volney finirà per rompere) o la lucida presa di distanza dagli eccessi della Rivoluzione del Terrore? Forse perché Robespierre ricorda troppo Lenin? O forse perché Volney ci mostra un’aria di famiglia con Löwith? Quel Löwith che si era scontrato con Ernst Bloch al Convegno di Urbino, stigmatizzando le follie del “principio speranza” realizzatesi nel frattempo sotto il volto oscuro del “principio di morte” del totalitarismo?

Ma non credo che contribuire al dibattito sulla secolarizzazione possa consistere nel riprendere, peraltro in piccolo, lo scontro tra Löwith e Bloch, scontro che per giunta  appartiene fortunatamente al passato. Ben altre sono oggi le sfide – le sfide tra “Dio e nulla” direbbe Franceschelli – di cui la categoria della secolarizzazione dovrebbe farsi carico, dal ritorno delle religioni monoteistiche nella nostra vita quotidiana a quei nuovi idoli secolari che sono il transumanesimo, la New Age e la cultura del narcisismo. Solo così penso che si possa davvero contribuire al dibattito sulla secolarizzazione, e soprattutto ad un rinnovato uso critico di questa categoria di fronte all’incalzare di vecchi e nuovi fanatismi in un tempo come il nostro che della “luce della ragione” sembra avere bisogno più che mai.

 



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