IL DILEMMA DELLA “PALLIDA MADRE” AI TEMPI DELLA PRESIDENZA TRUMP

 

 

E’ opinione largamente diffusa che lo scontro in atto fra la visione dell’economia europea connessa alla politica della Cancelliera Merkel e quella fin qui interpretata dal Primo Ministro italiano Renzi, corrisponda allo scontro fra una politica di austerità/rigore, da un lato, ed una di investimenti/indebitamenti dall’altro. In effetti, le cose per diversi aspetti sembrano stare proprio così ma ad uno sguardo più attento emergono particolari che possono indurre a percorrere altre vie. Come primo passo in quest’analisi, però,  partiremo dalla fine: Donald Trump è da poco il nuovo presidente degli Stati Uniti e sembra che tutta l’attenzione non solo dei mezzi d’informazione del vecchio continente ma direttamente della Commissione europea subisca come una sorta di traslazione di urgenze e interessi; lo scontro rigore-investimenti appare, cioè, meno problematico dello scenario che i famigerati analisti della politica internazionale vanno costruendo. In questi giorni, infatti, in Europa ci si preoccupa di molte eventualità connesse alla futura politica degli Stati Uniti. Vediamole queste paure europee sui futuri scenari della politica economica degli Stati Uniti: di un nuovo isolazionismo economico, della richiesta americana di maggiore impegno finanziario europeo-occidentale nelle spese militari della NATO che costringerebbe i membri dell’alleanza aumentare la percentuale del proprio P.I.L. per le spese militari, di un’ entente cordiale Putin-Trump sul vicino oriente che renderebbe debole la voce europea, di una nuova ondata neoliberista – reaganiana che contagerebbe negativamente il nostro Welfare, di una gigantomachia commerciale anti-cinese che vanificherebbe la politica commerciale europea volta a ottenere un libero mercato in Cina, etc. Come dire che, a confronto con queste tematiche, lo diatriba Merkel – Renzi (a sua volta reificazione di uno dei peggiori luoghi comuni: da un lato tedeschi seri attenti e previdenti e dall’altro italiani allegri, furbi e superficiali) sembra passare in secondo piano; invece ora sì che sarebbe veramente importante affrontare. Infatti, è proprio l’imminenza dei 100 giorni che Trump ha indicato come svolta immediata della politica economica  del suo Paese che dovrebbe, al contrario, costringere la pubblica opinione europea a ripensare i termini dello scontro fra la Commissione europea, fortemente influenzata dalla Germania, e il Governo italiano fortemente condizionato da un disperato bisogno di investimenti pubblici. Infatti, se Trump passasse all’azione nei termini che ha delineato in campagna elettorale la sola cosa l’Unione Europea non dovrebbe fare è quella di farsi trovare con i suo membri disposti in ordine sparso. Infatti,  poiché, data la Brexit,  la Gran Bretagna appare avviata a un’intesa alquanto più stretta con gli Stati Uniti di tipo WASP (gioco di parole diffuso negli Stati Uniti, che si basa fra l’assonanza di fra acronimo “White Anglo Saxon Protestant”e la parola“Wasp”, cioè “vespa”..), l’Unione Europea deve assolutamente decidere in modo univoco. In queste circostanze la non scelta è sempre la peggiore scelta. Solo che tale oggettiva urgenza costringe tutti gli attori della questione “sforamento si/ sforamento no” a guardare in fondo al sacco di tutti; ciascun Paese dell’Unione Europea deve, cioè, guardare nel sacco dell’altro. Prendiamo però ora solo due sacchi, quelli dei Paesi attori della diatriba, cioè  Germania e Italia. Nel fondo al sacco italiano, si sa, vi è un debito pubblico di proporzioni immani sul quale neppure un intero saggio riuscirebbe a fare luce in modo storicamente definitivo, tanti sono i padri e tanti i complici della voragine italiana; in fondo al sacco tedesco, per tornare sulla diatriba, vi è però l’abnorme eccesso di saldo positivo della bilancia commerciale. Nei sacchi vi è tanto altro, è intuitivo, ma queste sono le cose più grosse che si trovano. Indipendentemente, infatti, dalla pesantissima vicenda della “Deutsche Bank” sulla quale chi scrive ha già dato sulle pagine di “Scenari” un segnale di avviso, la Germania registra costantemente, anno per anno e da parecchi anni, un saldo attivo nei suoi scambi con l’estero di una dimensione ingente. Tutto lascia pensare che questo andamento si confermerà ancora per qualche anno; quanti anni nessuno lo sa, ovviamente, ma certamente per i prossimi tre-quattro andrà così.. Si tratta, per altro,  di un saldo a sua volta articolato, che coinvolge non solo le tre categorie economiche tradizionali (beni, merci e servizi) ma sempre di più gli interessi e i dividendi sulle compartecipazioni e proprietà estere. Ora, se questo eccesso lo si riuscisse a trasformare in carburante per lo sviluppo dell’area diciamo “Schengen”, allora tutti, tedeschi e non, ne sarebbero lieti soprattutto perché si tratta di circa 1000 miliardi di Euro. Solo che così come l’Italia non riesce, se non in modo del tutto insufficiente, a invertire la spirale dell’indebitamento, la Germania non riesce a trasformare  in consumi e / o investimenti produttivi quel fiume di denaro. Tutto quel saldo positivo va verso le banche con i loro incestuosi rapporti con l’Establishment politico mondiale, quelle stesse banche contro le quali, lo ammettono tutti, hanno votato gli elettori di Trump che pure non si annoverava tra i sostenitori di “Occupy Wall Street”. Non è importante in questa sede giudicare se quegli elettori hanno fatto bene o male; è importante sottolineare che l’Unione Europea deve decidere ora e in fretta quale modello di sviluppo dovrà essere ricercato e perseguito. Ora, per ragioni di spazio, fra le tante preoccupazioni europee in merito alla futura politica di Trump prendiamone una sola, a mo’ di cavia. Ipotizziamo che davvero esploda una gigantesca guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, dove i primi chiudono le porte all’import e i secondi devono ridurre proporzionalmente le importazioni. Chi esporta in Cina, oggi? La Germania. E’ la poderosa (e per chi scrive anche meravigliosa) macchina industriale tedesca che si può permettere il lusso – e lo fa, eccome – di vendere ai Cinesi ciò che solo la sua industria riesce fare e cioè prodotti ad alto valore aggiunto perché nella fascia alta della tecnologia. Ma se la Cina, con l’eventuale scelta di Trump, potrà esportare meno o punto negli Stati Uniti, è pensabile che importerà meno dalla Germania; questa si troverebbe alla sue ennesima crisi di ristrutturazione industriale che non potrà fare altro che guardare al mercato interno, cioè europeo; un mercato che in regime di austerità non avrà poi tanto da consumare, tedesco o non tedesco sia il prodotto. Se invece si dovesse mettere mano a una politica di investimenti di largo respiro allora probabilmente si potrebbe guardare a quella eventualità con meno timore. Ora si moltiplichi questa riflessione per tutte le questioni connesse alla futura gestione – Trump dell’economa degli Stati Uniti e se ne traggano le conclusioni.  Se mezza Europa è disoccupata non ci vuole un nuovo Keynes per sospettare che si andrà incontro ad un approfondimento ulteriore della crisi in atto. In un certo senso Renzi ha ragione a rivendicare la propria posizione come un buon tracciante per una nuova politica economica dell’Unione, se non fosse per un problema. Infatti, indipendentemente dal fatto che la richiesta di inversione di marcia viene da un Paese quale l’Italia che ha ben tanto poco titolo per fare da apripista di una nuova linea economica, il problema è che non ha senso rimproverare la Germania oltre i suoi eventuali demeriti in lungimiranza. Chiediamoci: è facile manovrare l’avanzo tedesco? No. La Germania esporta in Euro, non in marchi. Fin quando vi era l’Euro forte si faceva fatica ad esportare. La Germania, ancora e forse per sempre Pallida madre, per citare un’espressione poetica di Brecht (che sarebbe stato anche il titolo di un famoso film della Sanders Brahms), con i precedenti governi della BCE poteva anche non fare i conti con se stessa; con Draghi ha potuto rinviare perché la crisi era crisi mondiale. Ora, però, ai tempi di Donald Trump questi conti deve farli. Con l’Euro di Draghi, diciamo un Euro debole, espressione di comodo ma scorretta perché in economia monetaria tutto, ma proprio tutto, è relativo al rapporto di cambio, la Germania può esportare molto bene. Solo che quella che gli economisti chiamano “bilancia delle partite correnti” ora sbilancia l’equilibrio del sistema. Sì, è vero, probabilmente un Euro del 15% più forte per la Germania e invece di un 20% più debole per Italia e Francia sarebbe astrattamente meglio. Ma il punto è questo, in questo avverbio “astrattamente”, perché piaccia o no, la moneta unica c’è. “Questo è l’Euro, bellezza, e tu non ci puoi fare niente”, potremmo dire, parafrasando la celeberrima battuta che Richard Brooks fa pronunciare ad Humphrey Bogart nell’ “Ultima minaccia”. Sì, l’introduzione della moneta unica è stata gestita in modo frettoloso, ma ora c’è e c’è anche e soprattutto per la Pallida madre. Toglierlo di mezzo sarebbe catastrofico, tenerselo impone scelte di fondo. E non si pensi che la crescita dell’economia tedesca dipenda da questa tendenza all’iper-esportazione, perché essa cresceva impetuosamente anche con l’Euro forte (il 20% più di oggi). La Germania deve decidere all’interno di un sistema che probabilmente sta per avere una trasformazione molto più veloce di quello prevedibile in caso di vittoria della Clinton; questo appare chiaro. Ma vi è un problema più profondo; mentre per secoli la Germania ha dovuto/potuto decidere da sola, in un contesto fortemente autoreferenziale secondo per tenacia solo alla storia cinese, essa ora deve fare i conti con un sistema diverso. Persino ai tempi dell’iperinflazione degli anni ’20 la Germania poteva comunque compiere scelte autoreferenziali. Facciamo qualche raffronto e contiamo i miracoli economici tedeschi, i Wirtscahftswunder. La Germania è assunta al rango di potenza economica mondiale a fine secolo XIX, con ritardo rispetto a Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti. E’ il tema del primo “miracolo economico” tedesco, con tutto il suo bagaglio di suggestioni, che non è apparso tale agli analisti solo dopo la fine delle due guerre mondiali, ma anche prima. All’inizio del ‘900, per esempio, un brillante economista tedesco, K. Helfferich, non solo nella sua concreta azione di amministratore di importanti Istituti di credito ma anche di saggista, aveva fatto notare che l’imponenza della crescita tedesca presentava (e agli occhi superficiali di un osservatore distratto quasi “nascondeva”) alcune interne particolarità che non si potevano riscontare altrove,  e che non erano facilmente omologabili a precedenti exploit economici come quello britannico prima e statunitense, poi. Questa osservazione fu tanto forte da suggerire allo studioso di adoperare una parola che la dice lunga, se assunta con serietà, e cioè che la Germania aveva imboccato a fine Ottocento una Sonderweg una via economica diversa. Egli notò, infatti, che la Germania aveva presentato un salto in avanti nel reddito nazionale dai 23,5 miliardi di marchi del 1896 ai 42 miliardi del 1913 e che la ricchezza totale della nazione era passata dai circa 200 miliardi di marchi del 1896 ai 300 del 1913; questo reddito, osservava l’economista, passava anche dai depositi delle Casse di risparmio che avevano visto incrementare l’ammontare della raccolta dai 6,8 miliardi del 1895 ai 17,8 miliardi del 1911. Stiamo parlando di cento anni fa. Il totale complessivo degli investimenti tedeschi diretti all’estero era giunto nel 1913 alla notevole cifra di 23,5 miliardi di marchi. Helfferich non esitò a parlare del proprio Paese come di una nuova e diversa potenza “plutocratica”. Che cosa era successo?Era successo che in Germania il corso degli eventi economici non aveva seguito la via che aveva caratterizzato l’affermazione della rivoluzione industriale, segnata dalla autonoma iniziativa degli imprenditori ma era stata accompagnata dall’alto, in un intreccio irripetibile di comproprietà e dirigismi tra banca, Stato e impresa. In Germania il capitalismo aveva conosciuto una forma di affermazione ben diversa dal resto del mondo e si è adoperata la fortunata espressione “capitalismo renano”. Anche quando la Germania sprofondò poi nell’iperinflazione, riuscì a uscirne praticamente da sola  nonostante si parli un po’ a vanvera del “Piano Dawes” anche perché, nel momento più nero, uno dei suoi maggiori talenti economici, Hjalmar Schacht pensò a offrire ai Paesi produttori di quelle materie prime che non poteva più acquistare con un marco-carta straccia, il prodotto lavorato con quelle stesse materie prime per mezzo delle industrie tedesche; e funzionò.  Lo stesso, sempre con Schacht, nel 1931, con la crisi del ’29. Dopo la tragedia nazionalsocialista, anche prima che tutto finisse, i capitalisti tedeschi misero bene al riparo ingenti fondi in Svizzera (che nessun nazista si sognò di consigliare il Führer di invadere) e altrove per poi farli rientrare dopo la guerra in Germania dove, combinati con il piano Marshall, dettero vita al secondo Wirtscahftswunder.  Con la riunificazione del 1990 si poté ancora contare su risorse più o meno interne al capitalismo tedesco; un terzo miracoletto niente male. Le cose ora però non funzionano così; ora non è più possibile, i miracoli sono finiti. Il “nemico” della politica di austerità voluta fortemente dalla Germania di Merkel e Schäuble non è Matteo Renzi a la nostra Italia, troppo piccoli entrambi per costituire un interlocutore minaccioso nei confronti della Germania di oggi e della sua forza economico – politica. Il nemico della Germania è la Germania; non è un passaggio retorico. Bisogna informare i Tedeschi, passi il tono famigliare, che non siamo nel 1913 e neppure nel 1923 o nel 1953  o 1990 ma nel 2016; che la Germania non può fare da sola; che c’è l’Euro e che, sbagliando o non sbagliando, quando gli Stati Uniti d’America si muovono, si muovono davvero e non è affatto certo che lo farà in modo utile all’Europa. Se l’Unione Europea vuole veramente difendere – e guai se così non fosse – le grandi conquiste nel campo del Welfare, dell’accoglienza, della libertà di circolazione, dell’attenzione alle classi più deboli etc., dovrà convincere la Germania a cambiare linea di politica economica, questo lo abbiamo capito tutti. Ma perché la Germania si convinca a cambiare passo e a rendersi conto che non ha alcun senso che un sistema che ha una stessa moneta sia caratterizzato da almeno sei-sette diverse politiche economiche dei suoi Stati membri e che alla fine ne prevalga una sola, cioè la sua. Da qui il dilemma della Pallida madre; deve ancora guardare solo a se stessa sperando di reggere le sfide del tempo storico o pensare in termini più ampi? Ma per fare così essa deve sconfiggere se stessa e la sua secolare sicurezza di potere combattere le partite da sola. Il che vuol dire ripensare bene che il rigore nei conti pubblici fa tanto “noi siamo seri” ma rischia di finire nei libri di storia come “quanto furono stupidi”.



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