Il pragmatismo di Nietzsche

 

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Le interpretazioni di Nietzsche che hanno prevalso finora si sono per lo più incentrate sui quattro concetti fondamentali, ovvero sulle dottrine della morte di dio, della volontà di potenza, del superuomo e dell’eterno ritorno dell’uguale. Da Jaspers a Heidegger, da Löwith a Fink in Germania, da Foucault a Derrida, da Deleuze a Rey in Francia e da Vattimo e Masini, a Ferraris e Pasqualotto in Italia, è intorno a quel quadrivio teoretico che si sono giocate le fortune dell’ermeneutica nietzscheana. Tutt’al più si può aggiungere ad esse la dottrina della trasvalutazione dei valori, se non la si considera un altro nome per la volontà di potenza o un nome collettivo che riassume le quattro dottrine. Appena si prova ad abbandonare la strada interpretativa più battuta si corre il rischio però di imbattersi in possibilità altrettanto, se non più, plausibili e sicuramente sorprendenti. È quello che fa Pietro Gori da ultimo con il recente Il pragmatismo di Nietzsche. Saggi sul pensiero prospettivistico, (Mimesis, Milano-Udine 2016) e già prima con gli studi sui rapporti tra Nietzsche e Mach e tra Nietzsche e Boscovich. Una delle idee guida di Gori è che la filosofia di Nietzsche, lungi dall’essere l’espressione di un bizzarro e originale filosofo che ha battuto tutte le strade dell’irrazionalismo per ritrovarsi pazzo ad abbracciare un cavallo in piazza Carignano a Torino, dovrebbe essere interpretata sempre alla luce anche del dibattito scientifico del suo tempo. Nietzsche pertanto lungi dall’essere il cattivo maestro dell’antiragione, sarebbe piuttosto uno scrittore, pragmatico e creativo, che assimila e trasforma col genio del suo linguaggio espressivo molti contenuti del pensiero della sua epoca e non ultimi quelli di argomento scientifico. In questo modo, negli studi precedenti, Gori ha saputo dare una lettura di taglio scientifico anche ad alcune delle quattro dottrine, l’eterno ritorno letto con le lenti della termodinamica, mentre in questo, avanza una serie di argomentazioni per permetterci di considerare il prospettivismo nietzscheano come una forma di pragmatismo. Per comprendere di cosa si tratta è bene mettere in campo anche altri termini con cui viene definita la filosofia di Nietzsche, primo tra tutti quello di fenomenalismo. Sottolineando il fatto che la riflessione di Nietzsche si sviluppa parallelamente al fenomeno dello Züruck su Kant (Lange, Liebmann, Helmholtz), che imprime una direzione di sviluppo alla gnoseologia kantiana in termini di fisiologia della percezione, Gori mette in luce un aspetto controintuitivo come quello della vicinanza con le tematiche di Kant.Che Nietzsche fosse critico di Kant pare invece una ovvietà; che sotto una critica severa e a tratti non priva di termini di dileggio, ci fosse un qualche accordo o consonanza tra i due pensatori su alcune questioni fondamentali, sembra per lo meno plausibile ed anche altri lo attestano, per esempio gli studi di Mattia Riccardi. Le istanze di partenza di Nietzsche sono radicate in una concezione che per certi versi risulta simile al kantismo. In sintesi, se è vero per Nietzsche che noi non conosciamo l’essere nella sua dimensione più profonda se non dicendolo attraverso un uso metaforico del linguaggio, cioè mediante una vera e propria falsificazione; se il perenne fluire dell’essere non ci permette di coglierne se non una forma stabile, ma falsa, di quello che è per principio dinamico, irrequieto e pulsionale, allora siamo poi così lontani dalla proposta kantiana di limitazione della conoscibilità scientifica esclusivamente del mondo fenomenico essendoci negata, se non la pensabilità, di certo la conoscibilità del noumeno?
Negli scritti giovanili Nietzsche elogia Kant (si ricordi che lo scritto che avrebbe dovuto diventare la sua tesi di laurea era dedicato allo sviluppo della teleologia fino a Kant), insieme a Schopenhauer e a Wagner, come campioni del pensiero antimetafisico e si sente erede della loro tradizione. Tra Nietzsche e Kant però c’è di mezzo la cosa in sé, ammessa dal secondo e negata dal primo; ma aldilà di questo entrambi convengono sul fatto che noi conosciamo solo l’apparenza, solo il fenomeno, per Kant perché è limitato dal noumeno, per Nietzsche perché il noumeno non c’è se non come pura invenzione umana. Tutto ciò che abbiamo di fronte è il mondo che ci appare e che non ha retromondi. Esso si dà alla nostra presa soggettiva attraverso le forme trascendentali della sensibilità e dell’intelletto, cioè ci si rivela sempre attraverso il filtro ineliminabile della soggettività. Una volta stabilito cosa possiamo sapere e cosa possiamo conoscere, ci resta la risposta alla domanda su cosa dobbiamo fare. Kant risponde con il dovere imperativo ed i postulati della ragione pratica, Nietzsche interpreta invece le nostre categorie, sia teoriche sia pratiche, cioè valoriali,  come forme di risposta di singoli ed individui ai propri bisogni di adattamento all’ambiente e di conservazione della specie. La nostra logica si è costituita nel particolare modo che conosciamo come qualsiasi altra reazione di un organo del nostro corpo, cioè rispondendo alle difficoltà di adattamento all’ambiente. Prende corpo pertanto una interpretazione della filosofia di Nietzsche come particolarmente ricettiva al dibattito scientifico più importante di tutto il XIX secolo, ovvero quello sul darwinismo. La nostra presa cognitiva del mondo ci è utile per risolvere i problemi di adattamento all’ambiente, ha cioè una sua utilità e un suo valore pratico. Da qui tutta una serie di connessioni della filosofia di Nietzsche con la corrente che un tempo si chiamava empiriocriticismo e che ora viene rinominata fenomenalismo, e cioè soprattutto con Mach, con il pragmatismo di James, e con il convenzionalismo di Poincaré. Trattato scientificamente, il che vuol dire, in questo studio, soprattutto con perizia e garbo filologico, Nietzsche risulta essere un fenomenalista, come lo era l’ambiente ‘neokantiano’ in cui si formò, un prospettivista, cioè sostenitore di una pluralità di verità (non c’è la verità ma ci sono le verità), e un pragmatista, perché la dotazione cognitiva dell’uomo si costruisce nel confronto evolutivo con l’ambiente, utilizzando non ciò che è vero, anzi addirittura il falso, ma ciò che è utile a fini pratici. Da qui anche una nuova prospettiva per l’etica di Nietzsche, se infatti i nostri concetti e valori sono prodotti da un organo che si evolve in relazione all’ambiente senza essere necessariamente veri, se anche un concetto falso può essere utile in pratica perché l’uomo è un animale socievole che si abitua ai princìpi che si impone o gli vengono imposti, allora concetti di nuovo conio (morte di dio, trasvalutazione) possono produrre un nuovo tipo d’uomo in tempi presumibilmente nemmeno troppo lunghi. Ci sono forme di adattamento all’ambiente che non avvengono necessariamente in tempi lunghi, la mutazione antropologica non ha più di dieci anni, diceva Pasolini. Perché abbiamo bisogno di un nuovo tipo d’uomo? Perché dovremmo uscire dalla nostra pelle e dalla nostra mente male educate dallo spirito gregario? Perché così fa un buon europeo di fronte alla decadenza, credo che risponderebbe Nietzsche.

Il libro di Gori si inserisce all’interno di una più vasta riconsiderazione del rapporto di Nietzsche con la scienza che ha visto anche in Italia numerosi contributi. Cito solo alcune delle aree tematiche che sono state sviluppate negli ultimi anni: i rapporti con la fisica di metà Ottocento, con la biologia e con l’astronomia. Ma già alla fine del secolo scorso con le lezioni di Moiso su Nietzsche e le scienze, una direttrice era stata tracciata. Se si ammette che questo è il più fecondo settore di studi sul filosofo del superuomo, se si constata che il suo legame con Mach e con James non è superficiale, ma sostanziale, allora dovremmo sorprendentemente includere anche Nietzsche fra i precursori della filosofia analitica.

 

 

Recensione di Enrico Petris

 


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