Terrorismo e disagio sociale

 

 

 

 

Il terrorismo è una piaga che l’Europa conosce da tanti anni. È stato ed è di diverse matrici e ha periodi di stallo e di improvvisa ripresa. Al momento stiamo vivendo un suo ritorno di fiamma che probabilmente ci accompagnerà per molto tempo, diventando una nota di cronaca della nostra quotidianità.

Per avere una chance di superamento del tipo specifico di terrorismo col quale oggi abbiamo a che fare è evidentemente necessario comprenderlo nel dettaglio, ma per comprenderlo è preliminarmente necessario porsi nella giusta prospettiva, ovvero in una prospettiva non ideologica.

A tal fine, credo sia superficiale etichettare il terrorismo come l’esito di una ideologia violenta. Pericolosamente superficiale, non solo perché questa definizione è talmente ampia da poter significare tutto e niente, ma soprattutto perché più che un tentativo di comprensione sembra un tentativo di esorcizzazione, ovvero di rimozione dal mondo occidentale di quei due elementi (l’ideologia e la violenza) che invece lo connotano a tutto tondo, attribuendoli a qualcun altro.

Naturalmente, mi riferisco qui al fatto che un’ideologia può essere basata non solo sulla religione; ferita che l’Europa ha già subito con il fondamentalismo cattolico delle crociate e dell’Inquisizione e le varie lotte in senso allo stesso mondo cattolico. Qualsiasi pensiero che parte da premesse inquestionabili, dogmi, è ideologia, e il ruolo del dogma può essere giocato tanto da un dio quanto dal capitalismo, dal consumismo o dalla tecnologia.

Quindi, per cercare di vedere le cose da una prospettiva non ideologica è indispensabile partire dalla problematizzazione del nostro punto di vista, da come spesso oggi decifriamo i fenomeni. Possiamo provarci con degli esempi.

Se un siriano o un migrante o un arabo o un islamico compiono un attentato, si innalzano subito cori per cui tutti i siriani, tutti i migranti, tutti gli arabi, tutti gli islamici sono potenziali terroristi e vanno quindi respinti nel loro mondo di terrore e inciviltà. Se però un americano compie una strage, il che avviene con inquietante periodicità, gli stessi coristi di cui sopra tacciono, considerandolo solo un singolo individuo disturbato non rappresentativo di tutti gli americani, sarebbe quindi assurdo dire di volerli bloccare e respingere nel loro mondo. Perché questa differenza di trattamento? (Repetita iuvant: se si ricorre all’argomento secondo cui gli uni sarebbero preda di un’ideologia violenta e gli altri no, si ritorna semplicemente al problema dell’esorcizzazione di cui dicevo prima.)

Una altro esempio, più circostanziato.

Relativamente all’attentato ad Ansbach di luglio 2016 (che forse non era neanche un attentato ma un fatto di violenza privata), l’attentatore era siriano, aveva un passato di cure psichiatriche e di tentati suicidi e il visto da rifugiato gli era stato negato, insomma, era un disadattato sociale, uno dei molti che il mondo occidentale di oggi produce. Quale di quelle caratteristiche è la più importante ai fini della comprensione, e quindi della futura prevenzione di simili eventi, del suo gesto? Il fatto di essere nato in un certo territorio, o la posizione in materia religione, o il fatto di essere frustrato da una vita in cui si è sempre fuori posto, indesiderato, progressivamente sempre più invisibile e quindi sempre più senza un’identità sociale, e quindi per i più influenzabili anche senza un’identità individuale?

Ed ecco quello che ritengo essere il punto dirimente.

Definendo questo specifico terrorismo come terrorismo islamico, ci si perde completamente il fatto un certo islam sia l’agenzia che oggi catalizza una massa di frustrati, disperati, spaventati, emarginati, senza speranza. Domani questa agenzia potrebbe essere un’altra, ma non per questo bisognerebbe allora parlare di terrorismo di altro tipo, questo non per omettere le specificità di ogni fenomeno, ma perché il motore sarebbe lo stesso di oggi: il rancore e la rivalsa contro un mondo che ti ignora e ti cancella, nel presente, e non ti da quindi nessun orizzonte, per il futuro. Ecco perché i terroristi di oggi non sono semplicisticamente dei folli in preda ad una qualche ideologia di sterminio, ma delle persone disagiate. Ecco perché una buona parte degli odierni terroristi è prodotta dal mondo occidentale, non all’altezza di mantenere le promesse di felicità, tantomeno di significato, che ha fatto per imporsi su altri possibili sistemi sociali e stili di vita. Ecco perché una buona parte di loro sono spesso giovani immigrati non di prima generazione (quelli di prima generazione ancora confidavano nel sogno occidentale), non integrati, con scarsa conoscenza e scarsi legami con la religione islamica. Ecco perché molti degli odierni terroristi provengono da famiglie agiate, occidentali o meno che siano: evidentemente l’opulenza materiale non può compensare la vuotezza di senso, di cui si va quindi disperatamente in cerca aggrappandosi a qualsiasi cosa capiti sotto mano, violenza e distruttività ovviamente votate a un senso, incluse.

La lotta al terrorismo passa oggi, pertanto, dal disinnescare i centri di produzione della manodopera terrorista. Il che significa anche, e forse soprattutto, bloccare: a) politiche neoliberiste, che distruggono qualsiasi idea di futuro degno da vivere, ovvero che abbia un significato non di tipo strumentale, contrattualistico, utilitaristico (en passant, per quelli che vanno in cerca di un’ideologia di distruzione della vita, eccola); b) politiche di esclusione, che stanno invece prendendo sempre più piede in Europa, sull’onda di una reazione a un nemico sbagliato, essendo quello vero non chi migra ma chi strumentalizza e sfrutta le migrazioni, dai trafficanti di esseri umani ai politici; tali politiche dividono in maniera binaria tra amico e nemico, incluso e escluso, producendo e alimentando così il risentimento di chi viene emarginato.

Non a caso recentemente il terrorismo si è concentrato prevalentemente in Francia, l’unico importante Paese europeo in cui ha realistiche possibilità di andare al Governo un politico populista e xenofobo: i terroristi fanno campagna elettorale per la destra xenofoba, quando non razzista, che a sua volta di rimando produce, e produrrebbe ancor più se diventasse più forte, manodopera per loro. Insomma, fra coloro che si presentano come gli estremi opposti sul campo di una battaglia per entrambi sacra, xenofobi e terroristi, entrambi fondamentalisti, esiste invece una sinergia proficua per entrambi. È infatti il caso di dire chiaramente una cosa ovvia, ma che per alcuni sembra non esserlo: la xenofobia è il rovescio ma non il contrario del terrorismo, entrambi, lo xenofobo e il terrorista, sono chiusi, sono intransigentemente contro qualcuno da cui sono spaventati reagendo con violenza. Lo scontro di civiltà esiste solo se e quando c’è qualcuno che pensa in tal modo, e le generalizzazioni sono sempre utili a tal fine, ovviamente però generalizzazioni selettive. Ovvero, a fronte di misure di sicurezza che vanno certamente adottate, se però poiché tra i migranti potrebbe esserci una percentuale di terroristi e questo li rende tutti terroristi potenziali che vanno respinti a priori, allora poiché tra gli italiani, o tra gli americani, o tra gli ungheresi dove c’è (di fatto) una certa percentuale di criminali, perché questo non rende tutti gli italiani, o tutti gli americani, o tutti gli ungheresi dei criminali potenziali che vanno incarcerati a priori?

A scanso di equivoci, sia chiaro che con questi argomenti non si sta proponendo un’accoglienza illimitata dei migranti. L’accoglienza non può che essere limitata: in un contenitore finito non si possono immettere più elementi rispetto a quella soglia finita.

Il problema tuttavia è che coloro i quali vogliono limitare l’accoglienza, predicano tali restringimenti in e da territori che non hanno fatto tutto quello che è possibile fare per l’accoglienza stessa. Lo dicono quindi per cavalcare onde elettorali e difendere privilegi.

Inoltre, ogni qual volta che si afferma una cosa del genere, andrebbe pronunciata non con quel misto di compiacimento, cinismo, arroganza e buonismo che invece accompagna sempre quei discorsi, ma con la tristezza di chi fallisce nell’aiutare chi sta soffrendo.

Sia ben inteso che nessuno vive nel Paese delle Meraviglie e che quindi è ovvio che tali discorsi trovano il loro primo ostacolo quando vengono pronunciati, in una direzione o nell’altra, in funzione politica, dovendo quindi rispondere a interessi elettoralistici o di altro tipo. Ma in questo momento è il versante teoretico quello sul quale vorrei richiamare l’attenzione. Un versante che a volte anche la cosiddetta Critica tradisce in nome degli interessi politici di cui sopra.

A ulteriore scanso di equivoci, sia anche chiaro che questo non vuole essere un appello al buonismo, tipico dei piagnistei religiosi in primis cattolici, peraltro interessati ad assorbire i migranti nella propria sfera di influenza dalla quale i “nativi” stanno sempre più uscendo (ma questo è un altro discorso). Leggere lo scenario che abbiamo di fronte alla luce di una contrapposizione fra buoni e cattivi è quanto di più fuorviante, banalizzante, controproducente e ottuso possa esserci. Si tratta piuttosto di strappare la pratica della cosiddetta Realpolitik al regno del cinismo, per inserirla invece all’interno di una dimensione ragionevole, nella quale lasciar emergere apertamente le domande nascoste che stiamo maneggiando, come: chi consideriamo essere un essere umano e chi no, e perché, chi consideriamo essere un essere umano di serie A e chi di serie B, e perché, se vi sia qualcuno o qualcosa che abbia la precedenza di fronte alla risoluzione della sofferenza, e chi o cosa, e perché…

E invece, escludendo i corni del cinismo, della xenofobia e del razzismo, da una parte, e del buonismo, dall’altra, le risposte (ergo, le argomentazioni) che si sentono, sono sempre e solo di tipo calcolante ed utilitaristico. In sintesi, o una mera questione di contabilità economico-amministrativa: siete troppi quindi andatevene; dove?, sostanzialmente, a morire lontano dai nostri occhi. Oppure, si va sull’evangelico: aiutarli a casa loro; facendo ovviamente finta di non sapere che casa loro è un disastro proprio a causa del fatto che casa nostra possa essere “bella”. Insomma, un punto di vista che mai si sforza di vedere le cose con gli occhi degli altri – e quelli che a questo punto pensano: e perché loro si sforzano di vedere le cose con i nostri occhi?, sono più letali dei terroristi perché alimentano quella disintegrazione sociale che è l’humus ideale di re-azioni violente –, un punto di vista claustrofobicamente stazionario nei confini, immaginari, del proprio mondo. E qual è questo mondo? Quello dell’uomo occidentale, che fa il bello e il cattivo tempo, che conquista e colonizza ma si indigna se qualcuno cerca di fare altrettanto a lui, che porta investimenti e saccheggia, che distribuisce armi e fomenta guerre e dispensa aiuti umanitari, che va fiero della propria, autoproclamata, importanza culturale e sbatte populisticamente la porta in faccia ai dannati della Terra (esemplificativo il comportamento dei maestri del rule of law e dell’illuminismo, Inghilterra e Francia, che hanno recentemente avviato la costruzione di un muro a Calais; da paragonare col comportamento degli abitanti dei villaggi marittimi del Sud Italia, evidentemente al di fuori del rule of law e dei sacri principi dell’illuminismo, dove quotidianamente sbarcano ondate di disperati ai quali quelle persone, spesso supplendo alle carenze delle istituzioni, portano da mangiare e da bere). Un uomo occidentale che, non a caso, vive in un mondo occidentale che sta sempre più collassando, ritirandosi dalle proprie promesse di felicità (chissà se prossimamente la parola welfare verrà anche bandita dai dizionari).

È tanto difficile, dunque, capire perché proprio dal cuore della civilissima Europa in tanti sono sensibili alla pubblicità di un’altra agenzia di felicità?

È tanto difficile, dunque, capire come (se non per un appello etico, quantomeno per un utile pratico) si dovrebbe intervenire?



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