Quale futuro per i giornali di carta?

 

 

Estratto da Tiratura illimitata. Dal crowdfunding ai native ads: inchiesta sul giornalismo che cambia di

Nella vita può succedere di tutto, pure che i ventenni di oggi scoprano di voler leggere le notizie del giorno prima, in un formato che non si può condividere, che viene aggiornato una volta sola al giorno. Può succedere anche che, chissà, gli smartphone passino di moda. Il sarcasmo dell’esperto di innovazione e docente della New York University Clay Shirky sembra mettere una bella pietra tombale su tutti quelli che pensano o si augurano che ci sia un futuro per i giornali di carta. Le notizie, in eff etti, non sono molto rassicuranti. Restando in Italia, i quotidiani negli ultimi dieci anni hanno perso tra il 25 e il 45% dei loro lettori, con punte del 70%. Un calo nelle vendite a cui è seguito un calo della raccolta pubblicitaria, passata dal miliardo e 700 milioni di euro del 2004 agli 898 milioni di euro del 201318. La raccolta pubblicitaria online, si sa, non è in grado di compensare una situazione di questo tipo, così come non è sufficiente la crescita delle vendite di copie digitali identiche al cartaceo, distribuite a un prezzo inferiore (ma con margini sicuramente più alti) su smartphone e tablet. In tutto questo, i costi fissi e le strutture elefantiache delle redazioni pesano come un macigno. Vista così – mezzo di comunicazione anacronistico, calo delle vendite e della raccolta, costi fissi enormi – non stupisce che in giro ci sia molto pessimismo per quanto riguarda il futuro delle testate di carta. Le chiusure si susseguono e, passando dal sarcasmo allo humour nero , ci sono anche siti che si dedicano a monitorare la quantità di testate sulle quali cala il sipario (per esempio NewspaperDeathWatch). Siti che a loro volta chiuderanno nel 2043, quando andrà in edicola l’ultima copia del New York Times stando alla profezia di Philip Meyer. Ovviamente, l’ultima copia del New York Times non signifi cherà la fi ne del New York Times stesso, che nel frattempo, si spera, avrà trovato il modo di rendere sostenibile il modello all digital basato su sito, app, edizione digitale e chissà cos’altro comparirà sul mercato da qui a 30 anni. Allo stesso modo, la fi ne dei quotidiani di carta non significherà ovviamente la fi ne del giornalismo: la speranza è sempre che si trovi il modo di ritornare a generare guadagni consistenti prima che si estinguano i giornalisti. Al netto di profezie e battute più o meno serie, la certezza è che la maggior parte dei quotidiani di carta cesserà di esistere. In alcuni casi sarà un male, perché significherà la scomparsa delle testate che nel frattempo non hanno trovato un modello di business alternativo; in altri casi si potrà archiviare la questione con un’alzata di spalle, perché il giornale del quale siamo stati affezionati lettori continuerà a esistere, semplicemente su altri supporti. In fondo, quello che interessa è poter leggere articoli, reportage, inchieste di qualità scritte da giornalisti pagati dignitosamente per realizzarle; dove poi si andrà fisicamente a leggere tutto ciò importa ben poco. E però, nonostante le profezie funeste, non è aff atto detto che tutti i giornali di carta debbano chiudere, perché una strada per far sì che una parte di questi possa sopravvivere si sta cercando e forse è anche stata individuata. Passa dai long form, dal feature writing, dalla capacità di creare o tenere in vita un marchio forte e una comunità attorno a esso, dall’apertura degli spazi, dall’organizzazione di eventi e workshop, dal merchandising e quant’altro. Una strada quindi molto più complessa di quella predetta da una seconda (e ottimistica) profezia che spesso circola su internet, e che vuole che nel futuro lo smartphone sarà il mezzo per le breaking news (che così ci raggiungeranno ovunque), il computer sarà il mezzo per le informazioni del giorno più significative, il cartaceo sarà il mezzo sul quale, con tutta calma, ci leggeremo gli approfondimenti del caso. Una profezia che già oggi stride pesantemente con la realtà dei fatti, visto che grazie all’ottimizzazione di siti sempre più responsive sta diventando prassi leggere anche sullo schermo di un iPhone (e nemmeno Plus) pezzi da diecimila battute. Non è questo il futuro dei giornali di carta, o meglio: non è solo questo. Sicuramente i quotidiani di carta dovranno dire “addio alle news”, perché davvero non si capisce l’utilità di occupare pagine e pagine con notizie che sono già state lette su internet il giorno prima e sviscerate nei telegiornali e nei talk show. E anzi fa una certa impressione che i quotidiani italiani continuino a insistere sulla strada dei resoconti di quanto già tutti sanno.

L’addio alle news è invece il primo passo per intraprendere una nuova strada. Niente più notizie, ma solo opinioni, inchieste, reportage long form e feature writing. Fermiamoci un secondo: se il long form sta ormai prendendo piede anche da noi, grazie in primis alle traduzioni di Internazionale e alla richiesta di lettori abituati a leggere articoli direttamente sul sito del Guardian, del New Yorker, di Politico; il feature writing (anche noto come new journalism) è qualcosa che invece da noi si vede ancora molto poco, ma che ha una lunga e nobile tradizione oltreoceano. È curioso che proprio il giornalismo anglosassone, che ha fatto della distinzione tra fatti e opinioni il suo mantra, sia quello che ha inventato il feature writing, che mira a scavalcare questo dualismo, trasformando l’articolo in qualcosa di davvero autoriale, a metà strada tra il reportage e il racconto. Enfasi personale, storytelling, metafore e simboli, scene e dialoghi estesi. Quindi, molto diverso dalle articolesse degli editorialisti di punta di un giornale. Qualcosa che, in Italia, è stato concesso di sperimentare quasi solo a Roberto Saviano. Il giornale del futuro, che non per forza deve costringersi a essere quotidiano, dovrà quindi riuscire nell’impresa di abbandonare definitivamente le notizie, ormai superflue per le testate di carta, e puntare tutto su approfondimenti, reportage, long form e feature writing. Tutto questo anche allo scopo di connotare sempre di più la propria linea editoriale, di rendere sempre più distinguibile un giornale dall’altro, di valorizzare al massimo le proprie firme. In questo modo, il giornale potrebbe diventare sempre più il simbolo di una determinata comunità, quasi una spilla da appuntarsi al petto. Anche in questo caso, non si inventa nulla di nuovo: il manifesto è sempre stato un giornale che i suoi lettori ostentavano sul tram beccandosi gli insulti dei lettori de l’Unità (altri tempi); in parte questo vale anche per Repubblica (per cui si è parlato di giornale-partito) o Il Foglio. Oggi, però, se si parla di riviste italiane che “fanno comunità”, viene più che altro da pensare a Internazionale o, ancora di più, a Vice, il magazine di riferimento di ogni hipster che si rispetti. Nel momento in cui una rivista diventa il simbolo di una comunità (strategia tanto più legittima in un momento di enorme crisi di rappresentanza da parte dei partiti), non solo si mette in parte al riparo dai rovesci della sorte, non solo promuove maggiormente la vendita del cartaceo (come si fa a ostentare sul tram un sito internet?), ma soprattutto individua una nicchia ben precisa. Che è quanto di più interessa oggi agli inserzionisti: trovare un target di riferimento di cui conoscere alla perfezione gusti e abitudini. Per definizione, però, una comunità condivide non solo valori, ma anche uno stesso ambiente. Che non può essere solo quello dei social network, ma dev’essere anche fisico. Il pensiero va alla “scandalosa proposta” che la proprietà di Libération aveva fatto alla redazione poco più di un anno fa: trasformare la sede del giornale in un centro culturale, con tanto di bar, ristorante, studi televisivi e addirittura una sorta di “redazione aperta”, visitabile dai lettori più affezionati. Al di là di quest’ultimo aspetto – che sembra venire meno al rispetto necessario nei confronti di chi, in quella redazione, ci sta lavorando e non vuole legittimamente trasformarsi in una sorta di guida turistica – ci sono sicuramente dei punti che si sarebbero potuti approfondire. Approfondimento venuto meno a causa della reazione sdegnata della redazione, che aveva visto nelle proposte del manager François Moulias il tentativo di trasformare un giornale in Libémarket o Libélandia. Il giorno dopo, la prima pagina del quotidiano titolava così: “Siamo un giornale: non un ristorante, non un social network, non uno spazio culturale, non un set televisivo, non un bar, non un incubatore di start-up”. A questa prima pagina, era arrivata la risposta dei lettori: “Siamo nel 21° secolo: spesso al ristorante, attivi sui social network, frequentatori degli spazi culturali, più mobili, non arcaici, impiegati o ammiratori delle start-up”. Chi ha ragione? Al di là di una certa ritrosia tipicamente francese (non che l’Italia sia la Silicon Valley), è evidente come uno stravolgimento di questo tipo difficilmente possa essere accettato mentre contemporaneamente si procede a licenziamenti, tagli di stipendi e quant’altro. E però, tutte le potenzialità di un giornale dal brand forte si mostrano proprio in questa proposta: far diventare la redazione il centro attorno a cui gravita la vita culturale della comunità che a quel giornale fa riferimento; un modello che da un punto di vista economico non può che far bene. Non solo perché con i ristoranti, i bar e gli spazi culturali si può guadagnare, ma anche e soprattutto perché un luogo di questo tipo attirerebbe anche persone (e giovani) che magari Libération non lo leggono. In questo modo si andrebbe a creare un circolo virtuoso, in cui i lettori danno vita a uno spazio culturale in grado di creare nuovi lettori.

Il giornale, allora, diventa solo una parte di un tutto molto più grande, ma alla cui base ci sono le idee e i valori che da quel giornale emanano. D’altra parte, non ci si può più aspettare che sia il lettore a venire di sua sponte “al giornale”, bisogna scovarlo e attirarlo. E il modo migliore per scovarlo nel mondo fi sico, oltre agli spazi culturali contigui alla redazione, è quello di dare vita a eventi, festival (e su questo, in Italia, ci siamo: Festival di Wired, di Internazionale, di Repubblica, di Limes, del Fatto Quotidiano), corsi e workshop (sfruttando gli spazi di cui sopra e la competenza dei giornalisti) e, perché no?, anche dando vita a del vero e proprio merchandising. Non piacerà ai più ortodossi e magari sarebbe pure un fallimento, ma non è da escludere che ci sia un mercato interessato ad acquistare cover dell’iPhone con le prime pagine storiche de il manifesto, agendine marchiate Il Fatto Quotidiano con le vignette di Vauro e chissà cos’altro. Sono espedienti meno dignitosi o meno funzionali sul lungo periodo delle copie vendute a cinquanta euro per dare ossigeno alle casse vuote? Ma perché tutto questo si deve adattare solo alle testate di carta, perché non anche alle riviste native digitali? In eff etti, potrebbe esserci chi vuole l’agendina de Il Post o vorrebbe frequentare un “hub” de Linkiesta. Ma si tratta di casi rarissimi: oggi come oggi i brand forti sono quasi esclusivamente quelli nati dalla carta stampata, marchi che peraltro sono i più presenti anche nel mondo digitale e che, soprattutto, sono gli unici ad avere le risorse finanziarie per poter provare a dare vita a un modello del genere



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