Una Sociologia di Dylan Dog: orrore, malinconia e critica politica attraverso un fumetto

 

 

Dylan Dog, “l’indagatore dell’incubo” ideato da Tiziano Sclavi quasi trenta anni fa e divenuto, soprattutto negli anni Novanta, uno dei fumetti di maggiore successo editoriale in Italia e all’estero, ha spesso destato l’attenzione anche di analisi e riflessioni culturali di una certa rilevanza: diversi sono stati gli interventi che gli sono stati dedicati e che ne hanno sondato le dimensioni etiche, metafisiche, estetiche e filosofiche in generale. Anche nel catalogo dell’editore Mimesis compare un libro specificamente dedicato proprio alla filosofia di Dylan Dog (Manzocco, R., Dylan Dog. Esistenza, orrore, filosofia, pubblicato nel 2011). L’indagatore dell’incubo, del resto, proprio per il fatto che si dedica a casi che riguardano paure, orrori, mostri, paradossi, enigmi arcani, naturalmente suscita tutta una serie di questioni esistenziali, morali, psicologiche, sentimentali, emozionali, che da sempre caratterizzano la vicenda dell’umanità.

Su questi aspetti di Dylan Dog, come detto, molto è stato scritto, evidenziando in questo personaggio e nelle sue storie, elementi legati a un malinconico romanticismo, a un’amara ironia, al rapporto tra illusione e verità, a una riflessione sul senso delle cose e della vita e sulla loro ineffabile complessità e ambivalenza.

Nella vicenda di Dylan Dog e nelle sue avventure, si può rilevare, tuttavia, anche una dimensione sociale e, in una certa misura, addirittura una visione politica, che pure sono non trascurabili, ma che, forse, vengono meno alla luce rispetto agli aspetti esistenziali che abbiamo accennato. In questa sede, possiamo, allora, sinteticamente provare a elaborare qualche indicativa considerazione anche in tal senso. In Dylan Dog e nell’universo delle situazioni e dei personaggi in cui l’”old boy” è calato, possiamo innanzitutto cogliere una generale critica sociale della società contemporanea, avanzata, tecnologica, burocratica, industrializzata, postmoderna, incentrata sulle categorie dell’economia e del successo.

Infatti, Dylan Dog è, in primo luogo, un antieroe, un individuo in definitiva non integrato nel sistema sociale: diffidente verso le tecnologie, tanto da essere refrattario a prendere l’aereo, a usare computer e cellulari, finanche a guardare la tv; egli è altresì incline ad aiutare gli altri e ad avere solidarietà e empatia in particolare verso le persone emarginate e sole e manifesta ideali ecologisti e animalisti; inoltre, pur avendo fama di play-boy, ha in fondo un’ idea ingenua dell’amore, incontrando così delusioni continue rispetto ai suoi sentimenti; infine, è lontano da mode e fenomeni di massa tipici del mondo attuale: discoteche, centri commerciali, e ambienti del genere gli appaiono dimensioni sociali distorte e inquietanti in cui non è a suo agio.

La dimensione di critica sociale in Dylan Dog, tuttavia, non si limita al protagonista in sé e alla sua caratterizzazione: spesso, infatti, gli incubi e gli orrori che egli deve affrontare non sono che l’iperbole di una possibile visione distopica del mondo attuale. Non a caso l’idea dell’inferno che a volte è presente nel fumetto non è ispirata alla tradizione dantesca, poiché l’inferno appare, invece, come un mondo dominato da una infinita e inutile burocratizzazione quasi kafkiana, in cui la cosa davvero spaventosa e orribile non sono tanto i demoni dall’aspetto perturbante, quanto l’idea della perdita del senso delle azioni e l’eterna ripetizione e catalogazione di questa sconvolgente assenza di senso: è un inferno, quindi, che si può considerare l’estremizzazione più terribile della gabbia d’acciaio burocratica già tratteggiata da Max Weber. Inoltre, sempre non a caso, molto di frequente, mostri e orrori con cui l’indagatore dell’incubo si confronta non sono che il riflesso di degenerazioni sociali, perché il male si lega in definitiva a contesti e situazioni che gli uomini stessi creano attraverso egoismi, brama di potere, intolleranza per ciò che non è incanalato in determinati modelli di riferimento di successo e di apparenza.

Per questo in Dylan Dog è possibile trovare, in fondo, anche una visione politica, certo disillusa e disincantata, più che radicale e bellicosa, ma comunque critica e attenta. E’ appunto una visione politica che pone in discussione il modello dell’individualismo radicale, della razionalità strumentale meramente economica, del dominio incontrollato, presuntuoso e scellerato che l’uomo vuole imporre sulla natura, della tecnocrazia funzionalista e della burocratizzazione alienante che annullano la soggettività e rendono le persone schiave del consumismo e delle apparenze: insomma, tutti temi su cui una tradizione ricca di critica socio-politica novecentesca, da Theodor Adorno e Max Horkheimer a Michel Foucault, passando per Marshall McLuhan e Christopher Lasch, solo per fare i primi esempi che sovvengono in mente, si è lungamente soffermata. E’, però, anche una visione politica e sociale, quella che appare in genere nei vari episodi del fumetto, amaramente realista: purtroppo, nelle vicende dell’ “old boy”, spesso non c’è redenzione, la storia di alcuni orrori e dolori si ripete ciclicamente ed è davvero raro trovare il lieto fine. Quello che l’eroe può fare, sullo sfondo di una riflessione malinconica, è solo cercare di non tradire i propri ideali, di non cessare di aver fiducia nel prossimo, di non dimenticare il valore della solidarietà, della giustizia, della lealtà, malgrado i propri limiti, malgrado le proprie insicurezze, malgrado le delusioni continue, malgrado tutto, malgrado in ultima analisi l’intera vicenda umana possa essere essa stessa l’orrore più assoluto e traumatico. Ma questo sforzo di resistenza resta comunque qualcosa di doloroso.

E’ forse superfluo ricordare che queste rapide e leggere osservazioni e possibili suggestioni, che sviluppiamo attraverso la lettura di un fumetto, non sono che minime appendici di discorsi più ampi e sostanziali su questioni sociologiche fondamentali: la loro possibile rilevanza non sta tanto nel fumetto in sé, quanto nel fatto che esso confluisce, come tanti altri aspetti, in quello che si può definire l’immaginario sociale e culturale di un epoca, ossia tutto quell’insieme di dimensioni non concrete che, tuttavia, attraversano e influenzano il nostro modo di pensare e percepire la realtà. Di questo immaginario vogliamo credere che valga un po’ la pena tener conto. Ed è per questo che, in questa sede, possiamo dire, tornando all’indagatore dell’incubo, che nella società liquida e tardocapitalista, che produce, dietro la sua patina scintillante, anche tante paure e orrori (dei quali non si stancano di allertarci sociologi come Zygmunt Bauman e Slavoj Žižek e prima di loro gli esponenti della Scuola di Francoforte), Dylan Dog ci appare e simboleggia un uomo idealista e problematico, ironico e tormentato, in fuga (e appunto impaurito) dal sistema sociale dominante e, in fondo, condannato all’infelicità, ma che, probabilmente, induce a ritenere che un’infelicità ancora maggiore sia quella che discende dall’abbandonare gli ideali, rassegnandosi all’oscura e cupa omologazione sociale, in una lunga e tormentosa nostalgia di universi paralleli morali mai realizzati.



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