Ca’ Foscari dei dolori

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Lo scorcio di un uomo, specchio di un sistema. Che immagini sa fare la scrittura! Certo le rappresentazioni sono meno lampanti che nei linguaggi visivi. Ma se si tratta di rendere scenari, immaginari o immaginative, la prosa, con l’elasticità del discorso, anafore e catafore, riesce meglio della pittura, del cinema e del teatro. Mette sotto gli occhi flussi del pensiero e corsi delle cose, senza darli a vedere.

Domenica 29 novembre, al teatro Massimo di Palermo, Paolo Puppa recita alcuni brani del suo ultimo romanzo, Ca’ Foscari dei dolori. È l’ipotiposi del mondo universitario italiano. I baronati, il bluff dei concorsi, le affiliazioni, le vendette trasversali, la compravendita degli esami, le cortigianerie. Prassi comuni. Però nessuno osa descriverle. Ambientare la storia a Venezia, dove Puppa, ordinario di storia del teatro e drammaturgo insegna, dà a queste logiche l’aria di una farsa, gli Atenei del Bel Paese divenuti un carnevale, trucco e alternanza di maschere. Ma sono costumi invalsi in Italia dalla fine degli anni Settanta, quando il fallimento nella militanza collettiva per l’uguaglianza, contro il perbenismo e lo sfruttamento, si è tradotto nella pretesa di inviolabili privilegi, nell’attecchire di biechi moralismi e in un’individualità cinica. La “lotta armata” alla rovescia: violenza non armata, ferocia, di cui paghiamo le conseguenze, in politica, nella finanza, nel diritto, nella sanità, all’Università. Colpa dell’ideologia? No. Gran parte dei sessantottini più giovani aderì al movimento per moda, per i propri piaceri, non per credo. Non ha combattuto per un ideale, ne ha solo sentito l’odore. The Dreamers (2003) di Bernardo Bertolucci non lascia adito a dubbi. Resta loro, unica idea, il libero arbitrio, fuori controllo, impunito. E la naturalezza della falsità. Oggi i nodi vengono al pettine. Con la presunzione di innocenza di Ignazio Marino, politico, chirurgo e cattedratico, l’(in)sindaco per antonomasia, siamo forse al capolinea. Alcuni Atenei, Ca’ Foscari per esempio, cominciano a invertire la tendenza.

Nella penna di Paolo Puppa un’Università per le carriere di arrivisti e non per la formazione e trasmissione dei saperi è un incubo. Puppa sceglie il genere del noir, che usa egregiamente nel combinare torbidezza, insanità e perversione, e racconta la visione angosciante di Giacomo Sconcerti, associato di storia della Repubblica Veneta a Ca’ Foscari. In questo incubo Sconcerti è il prodotto peggiore della professione che ha intrapreso e del sistema professionale che lo ha generato: un topo da biblioteca con il massimo dell’amor proprio e il minimo di affettività. È marito di una moglie che non ama e con lei e la sua famiglia protettiva, che gli ha garantito l’associatura, recita un inutile copione. Gli anni scorrono nell’attesa di una cattedra che non arriva, in un circolo malsano dove dominano gossip, corruzione, scambio di favori e ansia da prestazione ossessiva, in tutti sensi. Il pensiero della paternità lo inquieta. In passato si è invaghito della figlia adottiva, un undicenne albanese che la moglie ha dovuto allontanare. Crede ora di riconoscerla in una prostituta russa con cui ha una squallida relazione e pronta a ricattarlo.

Fra viltà, umiliazioni e false speranze, Sconcerti perde qualsiasi orizzonte. E più ha ribrezzo di sé, più questo sentimento si ritorce nell’odio verso gli altri, che è il suo modo di tenerli a distanza. L’abuso di psicofarmaci, oltre a provocare fantasie sulla malattia e sulla morte, altera le percezioni e alimenta crucci meschini: “I docenti erano più bravi di altre categorie di clienti? O, intossicati dalle soste in biblioteca o in aula, si rivelavano manchevoli, più o meno tutti, nei confronti di imprenditori, di calciatori, di politici?”. Repelle, la mediocrità di Sconcerti, perché sfogo mentale e sfogo sessuale hanno in lui ritmi e registri analoghi. Un lavorio continuo sostituito al lavoro più bello: la ricerca per la didattica. Non scrive, non pubblica e gli studenti non ha il coraggio di guardarli in faccia.

Molti indizi portano il lettore sulla pista dello stato onirico: la penombra, il torpore, i dormiveglia dopo le immancabili pillole, i frequenti pisolini diurni. C’è una fine, perché in conclusione il protagonista si sveglia, dopo aver toccato il fondo ed essere svenuto. Ma non si trova l’inizio. Questo sogno è troppo osceno per essere vero e però indeterminato, contiguo alla realtà. La voce della moglie come il suono della Sfinge pone il dilemma. In extremis Sconcerti chiede di riaddormentarsi di nuovo, ma di chiudere, di “calare le tende”. Voltiamo pagina. Per dimenticare quel luogo, immaginare un’eterotopia, utopie ce ne fossero. Qualsiasi altro sogno, a confronto, è un ideale di cambiamento.

 

Recensione di Tiziana Migliore


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