Il realismo dei sonnambuli. La Turchia, il Pkk, l’Isis e l’Occidente

 

 

Parte prima.

 

«Se non faremo l’impossibile ci troveremo di fronte l’impensabile». Murray Bookchin

 

Alla fine dell’agosto scorso il generale in pensione ed ex direttore della Cia David Petraeus ha suggerito di armare alcune componenti di al-Nusra, il ramo siriano di al-Qaida, per combattere il sedicente Stato islamico. Di primo acchito potrebbe sembrare l’ennesimo riflesso pavloviano del Pentagono: armare gli islamisti ha funzionato contro i sovietici negli anni ’80, funzionerà contro l’Isis, poco importa che il califfato sia l’esito finale di quella stessa operazione afghana. Si tratta invece di una predisposizione al patto con il diavolo che pare affliggere buona parte degli analisti occidentali orientati a una soluzione “realista” della crisi. Una pulsione che, considerato il numero di diavoli in azione nel conflitto siriano, potrebbe costare caro.

 

Il monumentale Diplomacy di Henry Kissinger dipinge con efficacia l’alternarsi, nella storia della politica estera americana, di due correnti di pensiero: l’eccezionalismo messianico, volto a perseguire la missione storica degli Usa come faro della libertà nel mondo, e un realismo d’impronta più europea. Il primo è storicamente associato ai presidenti democratici, il secondo a quelli repubblicani. L’equazione è rimasta pressoché valida fino alla presidenza Clinton. George W. Bush e i circoli neoconservatori hanno rovesciato i termini della questione in otto anni di amministrazione radicalmente interventista e unilaterale. I risultati sono noti. Dopo la sbornia neocon, il realismo è tornato di moda: alla fine del suo mandato il presidente Barack Obama, in patria accusato spesso di avere un atteggiamento naïve, ha dimostrato invece di aver appreso discretamente le lezioni della scuola di Kissinger. Le operazioni di avvicinamento a Cuba e all’Iran che la Casa Bianca ha portato a compimento sono improntate a uno schietto realismo. Molto meno l’atteggiamento tenuto nei confronti della Russia nella crisi ucraina, su cui sono pesati da un lato l’insofferenza personale del presidente americano verso l’omologo russo, dall’altro i forti legami che i vertici della Nato e della diplomazia Usa in Europa orientale ancora mantengono con l’approccio dell’era Bush. Ma la Siria, come vedremo, si è rivelata un rompicapo del quale Washington non riesce a venire a capo.

 

Anche in Europa il richiamo a un approccio realista risuona sempre più frequente sui media e nelle cancellerie. L’arrivo di decine di migliaia di rifugiati alle porte dell’Unione ha aggravato la percezione europea del conflitto, mettendo in difficoltà tanto i governi nazionali quanto i vertici di Bruxelles. In questi giorni non è difficile trovare negli editoriali dei media europei una proposta che fino a un anno e mezzo fa era considerata impraticabile negli ambiti mainstream: elevare al rango di interlocutore il regime di Damasco pur di combattere l’Isis, visto ormai come la minaccia principale agli equilibri regionali. Spagna e Austria sono arrivate a rompere il tabù proponendo ufficialmente un cessate il fuoco con il regime.

 

Purtroppo «il nemico del mio nemico è mio amico» è una carta ormai difficile da giocare nello scenario siriano. Ogni mossa in un senso o nell’altro porta con sé risvolti imprevedibili. La norma realista richiede una pragmatica tolleranza delle bizzarrie in politica interna di un interlocutore, fino a quando questo può essere utile nel raggiungimento del fine perseguito. I potenziali referenti siriani, però, finiscono inevitabilmente per interferire con questo o quell’attore regionale.

 

Una collaborazione delle potenze occidentali con Damasco sarebbe quantomeno problematica. Abbandonare il mantra del regime change (scelta che almeno per il momento Washington non pare intenzionata a prendere) guadagnerebbe il plauso della Russia – che sta alzando visibilmente il proprio grado di coinvolgimento nel conflitto – e dell’Iran – con cui la collaborazione è già avviata sull’altro fronte della guerra all’Isis, quello iracheno. Si scontenterebbero però il governo turco le petromonarchie della Penisola arabica: il primo è un fiero nemico di Assad, le seconde sono ossessionate dall’ombra del grande avversario sciita, Teheran. Non va dimenticato lo stato di Israele, che non vedrebbe di buon occhio il dialogo con un governo legato a doppio filo con l’Iran e l’odiato Hezbollah. Inoltre la situazione sul campo non disegna uno dei momenti più felici per le forze governative, demoralizzate ed erose dai troppi fronti aperti.

 

L’altra opzione, quella vagheggiata da Petraeus, è un’estensione della via seguita finora, e consiste nell’estendere il sostegno militare anche ai gruppi ribelli meno “presentabili”. Armare gli integralisti in funzione anti-Isis susciterebbe una tacita soddisfazione ad Ankara, Riyad e negli emirati, ma la scelta risulterebbe alquanto sgradita a Teheran e alla Russia, che vedrebbe minacciata la sua base militare in Siria. Non ultimo, ammesso che sia possibile abbattere il regime e sconfiggere l’Isis in questo modo, i precedenti in questo senso non hanno avuto esiti felicissimi.

 

Riallacciare il dialogo con Assad, puntando magari a un suo ritiro volontario al termine del conflitto, o appoggiarsi anche ai ribelli più estremisti pur di battere lo Stato islamico. Si tratta di un bivio in cui ambo i rami sono giustificabili secondo i principi della scuola realista. Colpisce però come entrambe le opzioni releghino in secondo piano l’unica formazione che sul terreno siriano è riuscita a infliggere sonore sconfitte all’Isis: i guerriglieri di Ypg e Ypj, le braccia militari del Pyd, il partito dei curdi siriani gemellato con il Pkk del Kurdistan turco. Ovvero l’altra grande forza laica rimasta nel paese oltre al regime.

 

Non si vuole qui fare l’apologia del Pkk. Il passato dell’organizzazione è ambiguo e spesso sanguinoso: ancora oggi è pervaso dal culto della personalità del suo fondatore, Abdullah Öcalan. Ciononostante dal 2005 a oggi il movimento curdo ha subito una radicale trasformazione politica, abbandonando l’ideologia al contempo leninista e nazionalista che l’aveva caratterizzato fino a quel momento. Rinchiuso in un carcere di massima sicurezza nel mezzo del mar di Marmara, Öcalan ha scoperto i testi del teorico americano del municipalismo libertario, Murray Bookchin: l’incontro intellettuale fra il filosofo del Vermont e il guerrigliero curdo ha generato il confederalismo democratico, attuale programma politico del Pkk e dei movimenti ad esso affiliati.

 

I guerriglieri hanno dato prova di notevole duttilità ideologica, interiorizzando la svolta dettata dal leader nel giro di qualche anno in modo quasi unanime. Oggi le organizzazioni legate al Pkk perseguono una politica libertaria, ecologista, socialista e femminista. Al di là dei proclami formali, tutti gli osservatori sul campo confermano che le aree della Siria controllate dal Pyd sono gestite in base a un sistema democratico assembleare, volto in modo esplicito a tutelare il mosaico etnico-religioso di quelle terre. Se a questo si somma l’efficacia ineguagliata dimostrata nella lotta contro l’Isis, i curdi dovrebbero essere l’interlocutore ideale per le diplomazie occidentali, realista o meno sia la loro linea. In fondo, un rapporto simile è già stato stabilito con la regione autonoma del Kurdistan iracheno (il cui governo è un antagonista politico del Pkk). Per la Siria ciò non avviene e le ragioni stanno a nord, oltreconfine. In Turchia.

 

 

 


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