Nella Relazione sulla situazione dei diritti fondamentali nella Ue (2013-2014), approvata a Strasburgo lo scorso 8 settembre, si sottolinea per l’ennesima volta che i diritti fondamentali delle persone LGBTI sarebbero maggiormente tutelati se esse potessero accedere a istituti a tutela delle proprie relazioni famigliari. Tra gli altri istituti cui si fa cenno, vi è il matrimonio, giacché in molti Stati membri dell’Unione europea – anche tradizionalmente cattolici come la Spagna o l’Irlanda – il matrimonio egualitario è una realtà. Le reazioni scomposte alla deliberazione europea, soprattutto da parte di esponenti del centrodestra, impongono di riflettere ancora una volta su una questione squisitamente giuridica: il matrimonio tra persone dello stesso sesso è un’opzione possibile per il legislatore italiano in base alla nostra Costituzione? (Per approfondimenti sul tema si rinvia a F. Mastromartino, Il matrimonio conteso. Le unioni omosessuali davanti ai giudici delle leggi, Napoli, 2013; A. Schillaci (a cura di), Omosessualità, eguaglianza, diritti, Roma, 2014; T. Mazzarese (a cura di), Diritti delle coppie omosessuali, numero monografico della rivista Diritto e questioni pubbliche, 2015, n. 1).
Una democrazia matura è una democrazia in cui ci si confronta prima di tutto su dati di realtà, su punti di partenza condivisi, a partire dai quali sviluppare il dibattito su qualsiasi tema. Nel nostro caso sono essenzialmente due.
Un primo dato è che la maggior parte degli italiani è favorevole al matrimonio tra persone dello stesso sesso, come è emerso da vari sondaggi, tra cui ricordiamo quello commissionato all’istituto di ricerca Demos da La Repubblica, pubblicato il 12 ottobre 2014 e quello commissionato all’istituto Piepoli da La Stampa, pubblicato il 27 maggio 2015. Nelle rilevazioni condotte da Demos e aggiornate al giugno del 2015, i favorevoli al matrimonio tra persone dello stesso sesso superano il 50% degli italiani, in modo trasversale quanto ai loro orientamenti politici. In una società, quindi, che accetta pacificamente che due persone dello stesso sesso si sposino, non può non risultare violativo della loro dignità, nel contesto sociale in cui vivono, vedersi rifiutare la possibilità di contrarre matrimonio. Certo, si potrebbe obiettare che l’opinione della maggioranza è irrilevante quando c’è di mezzo la tutela di diritti fondamentali. Ma visto che uno degli argomenti contro l’estensione in senso egualitario del matrimonio è l’opinione della maggioranza degli italiani, che sarebbe contraria a tale riforma, è bene ricordare a tutti che si tratta di una menzogna.
Un secondo dato – e qui vengono gli aspetti più tecnici del dibattito – sono le pronunce di alte Corti, italiane e sovranazionali, che hanno affrontato la questione. In particolare, è opportuno soffermarsi sulle acquisizioni interpretative raggiunte grazie a due pronunce della Corte costituzionale italiana: le note sentenze n. 138/2010 e n. 170/2014.
La nozione di matrimonio della Corte costituzionale e i poteri del legislatore.
La Corte costituzionale, nella sentenza n. 170/2014, citando se stessa, ha ribadito in maniera molto chiara un’opinione già espressa nella sentenza n. 138/2010. Al § 5.2. della motivazione in diritto della sentenza si legge: “la nozione di matrimonio presupposta dal Costituente (cui conferisce tutela il citato art. 29 Cost.) è quella stessa definita dal Codice civile del 1942, che «stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso»”. Qui la Corte non sta esprimendo un parere sulla costituzionalità del matrimonio egualitario, ma sta semplicemente indicando gli ostacoli al suo riconoscimento per via giurisprudenziale; ostacoli che non sono di principio ma che hanno a che fare fondamentalmente con la definizione di matrimonio rinvenibile nel nostro ordinamento, che non è scritta in cielo bensì nel Codice civile, testo facilmente accessibile a una riforma da parte del Parlamento.
Il punto di partenza del ragionamento della Corte non è cambiato dal 2010. Gli snodi del sillogismo operato dalla Consulta sono i seguenti:
1- Premessa maggiore: nella Costituzione non c’è una nozione di matrimonio.
2- Premessa minore: la nozione di matrimonio va desunta da un’interpretazione sistematica delle norme vigenti di rango ordinario, da cui si trae l’evidenza che in questo momento nell’ordinamento giuridico italiano il matrimonio è configurabile solo tra persone di sesso diverso.
3- Sintesi: la Costituzione italiana – finché le norme vigenti di rango ordinario non saranno modificate – continuerà a tutelare il matrimonio tra persone di sesso diverso.
È il legislatore ordinario, quindi, a dover modificare i connotati essenziali dell’istituto matrimoniale, come ha già fatto in parte nel 1975 con la riforma del diritto di famiglia. Quell’inciso, “tuttora stabilisce”, utilizzato dalla Corte costituzionale, serve proprio a sottolineare come ciò che non è cambiato dal 1942 a oggi, potrebbe cambiare domani grazie a una riforma del Codice civile.
Date siffatte premesse, non sorprende affatto che la Consulta definisca “essenziale” (rispetto al diritto vigente) l’eterosessualità del matrimonio, ma ciò non implica in alcun modo né che tale caratteristica acquisisca una caratura costituzionale né che non si possa immaginare l’introduzione di un matrimonio egualitario perché l’istituto del matrimonio sarebbe “ontologicamente” eterosessuale.
L’aggettivo “essenziale” viene utilizzato in tale contesto nel senso in cui normalmente viene utilizzato dai civilisti. Si definisce essenziale qualsiasi elemento strutturale di un negozio giuridico, individuato come tale dal legislatore. Nel caso del matrimonio, la Corte costituzionale ritiene che il Codice civile vigente qualifichi la diversità di sesso dei nubendi come elemento strutturale del negozio. Ma ciò è vero appunto, unicamente alla luce del diritto vigente, che il Parlamento può modificare in ogni momento.
Ciò vuol dire che il legislatore debba operare necessariamente tale modificazione? Secondo i giudici delle leggi, no. Tale scelta rientra nella piena discrezionalità (e quindi nella responsabilità) del Parlamento. Ad oggi, il fatto di non aver compiuto una scelta simile testimonia, secondo la Consulta, che lo Stato ha interesse a salvaguardare l’eterosessualità del matrimonio, anche se – per inciso – la Corte costituzionale non esplicita quale sia tale interesse né è agevole immaginare in cosa esso consista.
La nozione di matrimonio e il diritto vigente.
Così come aveva fatto nella sentenza n. 138/2010, anche nella sentenza n. 170/2014 la Corte costituzionale non rilegge la nozione di matrimonio alla luce delle modificazioni introdotte nel nostro ordinamento dalla Carta di Nizza e dalla Convenzione europea dei diritti umani, come interpretata dalla Corte di Strasburgo. Delle norme sovranazionali la Consulta sceglie di considerare solo quella parte in cui si sancisce la piena discrezionalità del legislatore nazionale circa le forme di tutela da adottare per le coppie formate da persone dello stesso sesso.
In tal modo, si crea un contrasto con la lettura che la Corte di cassazione ha dato del nostro ordinamento nella sentenza n. 4184/2012, in cui ha preso atto della modificazione in senso egualitario della nozione di matrimonio, riconducibile all’art. 9 della Carta di Nizza (che riconosce il diritto fondamentale di sposarsi a tutti a prescindere dal sesso dei nubendi) e all’art. 12 CEDU, come interpretato nella sentenza della Corte EDU Schalk and Kopf contro Austria del 24 giugno 2010 (in base alla quale anche il matrimonio tra persone dello stesso sesso rientra nella nozione giuridica di matrimonio).
La Corte costituzionale, dovendo prendere decisioni alla luce del diritto vigente, va alla ricerca della nozione “attuale” nell’ordinamento giuridico italiano di matrimonio, ma sceglie di arrestare la disamina delle norme da prendere in considerazione a quelle nazionali, con l’evidente finalità di non mettere in discussione le competenze del Parlamento. È alla luce del diritto vigente, quindi, che la Corte esclude l’apertura per via giurisprudenziale del matrimonio alle coppie dello stesso sesso.
La Corte costituzionale coglie comunque l’occasione per stigmatizzare il vuoto di tutela del diritto alla vita famigliare, sancito dall’art. 8 CEDU, con riferimento alle coppie formate da persone dello stesso sesso. Prendendo atto che il legislatore finora non ha allargato la platea degli ammessi al matrimonio, indica nell’art. 2 Cost. il fondamento per legittimare costituzionalmente un istituto ad esso alternativo, che consenta di tutelare il diritto alla vita famigliare anche per le coppie formate da persone dello stesso sesso. Ma da ciò non si può certo desumere che un istituto alternativo al matrimonio sia l’unica strada percorribile per rimanere nella legalità costituzionale. È piuttosto “una” delle strade percorribili per il legislatore, nell’ipotesi in cui si decidesse – come stiamo vedendo accadere in questi giorni – di non mettere mano con legge ordinaria all’istituto matrimoniale.
Pure ammettendo – contro ogni evidenza testuale e ogni ricostruzione sistematica – che la Corte abbia affermato, nella sentenza n. 170/2014, che l’art. 29 Cost. escluda una riforma del matrimonio in senso egualitario, chiediamoci perché – se le cose stanno così – non abbia mai suggerito l’ipotesi di una riforma di quell’articolo con legge costituzionale. Escludendo l’irreformabilità di quella norma, la risposta è semplice: l’art. 29 Cost. non esclude affatto una riforma del matrimonio in senso egualitario, sicché basta una legge ordinaria a modificare la nozione di matrimonio nel nostro ordinamento e aprirlo alle coppie formate da persone dello stesso sesso.
L’istituto alternativo al matrimonio e la dignità sociale delle coppie dello stesso sesso.
La Consulta, dunque, ha ribadito l’esistenza di un nucleo duro per la tutela delle coppie formate da persone dello stesso sesso, che non può essere scalfito dal legislatore. Questo nucleo duro è il rispetto della vita famigliare, riconducibile al combinato disposto degli artt. 8 CEDU e 2 Cost. E’ questa la soglia al di sotto della quale il legislatore non può scendere nell’immaginare una tutela per le coppie dello stesso sesso alternativa al matrimonio. In maniera più o meno esplicita è l’indicazione che ci proviene anche dalla Corte di Cassazione e dalla Corte europea dei diritti umani, rispetto alla quale la presunta “specificità” delle formazioni sociali in parola – attualmente sottolineata dal disegno di legge in discussione sulle unioni civili – risulta del tutto incomprensibile, visto che il diritto alla vita famigliare va tutelato per tutte le coppie a prescindere dal sesso dei partner.
In sintesi, il legislatore viene lasciato libero dalla Corte costituzionale di fare le sue valutazioni politiche e decidere se allargare o meno in senso egualitario il matrimonio. Nello stesso tempo, però, i cittadini che vivono in coppie formate da persone dello stesso sesso potrebbero vedere colmato – sempre secondo la Consulta – quel “deficit di tutela” dei loro diritti, attraverso un istituto alternativo al matrimonio. In nessuna sentenza della Corte si può trovare l’appiglio per giustificare l’accesso da parte delle coppie formate da persone dello stesso sesso a un istituto “specifico”, che in altri termini, non partecipi della stessa dignità sociale che gode attualmente la famiglia (coniugale o non coniugale che sia) formata da persone di sesso diverso.
Anzi, nella sentenza n. 138/2010 troviamo un passaggio che smentisce platealmente ogni giustificabilità costituzionale di una differenziazione di piani (giuridico e valoriale) tra la famiglia formata da persone dello stesso sesso e la famiglia formata da persone di sesso diverso. Infatti, proprio perché la vita famigliare va tutelata in sé a prescindere dalle caratteristiche dei soggetti che la pongono in essere, la Corte costituzionale si riserva il potere di intervenire «con il controllo di ragionevolezza» sui differenti trattamenti che in particolari situazioni il legislatore dovesse imporre alle realtà famigliari di cui discorriamo, dal momento che – nell’opinione dei giudici delle leggi – vi è «la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale».
La responsabilità del legislatore di fronte ai cittadini.
Da tutto quanto precede, non emerge che le sentenze della Corte costituzionale impediscano un dibattito parlamentare volto ad allargare in senso egualitario il matrimonio. E’ vero proprio il contrario. La Consulta ritiene che siano le Aule parlamentari il luogo più adatto a compiere una scelta simile, che – per quanto si è chiarito prima – richiede la modifica del nostro Codice civile e delle leggi ad esso collegate in materia matrimoniale e non certo una riforma costituzionale.
E’ il momento delle responsabilità di chi fa politica, giacché la responsabilità è sempre l’altra faccia della libertà e del potere. Già nel recente passato si è cercato di eludere tale responsabilità imputando alla Corte costituzionale opinioni che la Corte non aveva mai espresso. Oggi sta succedendo la stessa cosa, anche se ad opera di chi aveva contrastato una rappresentazione mistificatoria della sentenza n. 138/2010, facendone (allora come oggi) uno strumento di visibilità personale e di affermazione all’interno del proprio partito.
Il dibattito politico di questi giorni sembra indirizzato verso l’introduzione di un istituto dedicato solo alle coppie dello stesso sesso, che in tal modo vengono fatte salire sull’autobus del diritto di famiglia, ma invitate cortesemente a sedersi in fondo. Manca il coraggio di dire ai propri elettori che il modello che si propone loro non prevede la piena uguaglianza tra le persone. Varie sono le motivazioni addotte a tal fine, pur di non farsi carico delle responsabilità politiche discendenti da una scelta dettata soltanto dall’esigenza di mantenere inalterati i fragili equilibri su cui si regge l’attuale maggioranza parlamentare in vista della riforma costituzionale del Senato.
Mancherebbero i voti per introdurre il matrimonio egualitario, si dice. È un’affermazione indimostrata e indimostrabile, giacché non c’è stata alcuna votazione – nemmeno in Commissione – che la possa far ritenere vera. A depositare proposte di legge per il matrimonio egualitario sono stati Deputati e Senatori del PD, SEL e M5S. Perché non si poteva lavorare per raccogliere un numero di voti sufficiente a partire da questo ampio schieramento di parlamentari? È evidente che questi partiti non appartengono tutti all’attuale maggioranza e che non si sono volute creare alleanze trasversali per sostenere il matrimonio egualitario. Ne prendiamo atto, ma è diverso dal dire che i numeri in Parlamento mancano in senso assoluto. Per onestà, si dovrebbe precisare che i numeri in Parlamento mancano in relazione agli attuali schieramenti di potere che non si intende sacrificare per una battaglia a favore dei diritti fondamentali di migliaia di cittadini.
Né a miglior sorte è destinata l’obiezione che il matrimonio egualitario non era nel programma elettorale del partito di maggioranza relativa. Come questo Governo ha già dimostrato, se ci sono obiettivi che la necessità del momento o la convenienza politica suggeriscono di perseguire, non ci si preoccupa certo di verificare, programma alla mano, se erano previsti oppure no ai tempi della campagna elettorale. Non resta quindi che arrendesi al fatto che l’affermazione della pari dignità sociale delle famiglie delle persone omosessuali non è per questo Parlamento e per questo Governo una necessità o una scelta conveniente.
Ma ciò che più desta stupore è la lontananza del Palazzo dal sentire comune, che tutta questa vicenda dimostra per l’ennesima volta. La società italiana è matura per scelte che solo valutazioni di strategia politica – e non certo la Costituzione italiana – impediscono di fare. La logica che sta muovendo il legislatore è la logica degli assetti di potere da guadagnare e da mantenere. Del che, in linea di massima, non ci sarebbe da stupirsi, se non fosse per la contraddizione stridente e insanabile tra le parole e i fatti di chi ha costruito la propria fortuna politica dicendosi nemico proprio di quella logica.
In definitiva, se in Italia non avremo il matrimonio egualitario non è a causa delle sentenze della Corte costituzionale, bensì per una scelta tutta politica di non conferire alle coppie dello stesso sesso la stessa dignità sociale goduta dalle coppie formate da persone di sesso diverso.
È bene chiarire subito – perché non si ingenerino false speranze in alcuno – che il giorno in cui si introdurrà un istituto alternativo al matrimonio riservato alle coppie formate da persone dello stesso sesso, nei termini in cui se ne discute attualmente al Senato, non si avrà più alcuna possibilità di ottenere per via giudiziaria un allargamento in senso egualitario del matrimonio. La declamata provvisorietà di un istituto, che dovrebbe “abituare” la società italiana alle coppie formate da persone dello stesso sesso, non potrà essere superata da alcuna sentenza. Una tale scelta è la pietra tombale di qualsiasi rivendicazione di eguaglianza in ambito matrimoniale per molti anni a venire. Del resto, in Italia nulla è più definitivo del provvisorio, specialmente se c’è di mezzo il nostro legislatore.