La Grecia e il fallimento europeo.
Parte prima: Breve storia della crisi greca
Il recente precipitare degli eventi in Grecia ha messo in luce tanto la fragilità politica delle relazioni interne all’Unione Europea quanto l’ambiguità dei patti che vincolano gli stati membri. Sui media, italiani ma non solo, si sono succedute letture degli eventi marcatamente divergenti, spesso ideologiche, e ancor più spesso penosamente disinformate.
Scopo di questo breve scritto sarà perciò, in una prima parte, di fornire un resoconto il più sobrio possibile, del quadro storico della crisi greca, rinviando ad una seconda parte un commento politico più comprensivo. Nel prosieguo, per ragioni di leggibilità non sono state introdotte note o riferimenti bibliografici, ma tutti i dati riportati sono tratti o da fonti ufficiali (Eurostat, FMI reports, ecc.) oppure, occasionalmente, da resoconti della stampa economica specializzata. Su alcuni dati vi sono piccoli scostamenti a seconda delle fonti, ma esse non toccano la sostanza. Pur sapendo che non è mai possibile separare completamente fatti ed interpretazioni, nella prima parte il mio intento sarà di limitare al massimo i commenti, lasciando innanzitutto al lettore la possibilità di acquisire un quadro sinottico della situazione.
1. Gli esordi della crisi greca
Il 20 ottobre 2009, il ministro delle finanze Gyorgos Papaconstantinou, ministro del partito socialista (Pasok) appena tornato al governo, rivela pubblicamente che il rapporto Deficit/Pil per l’anno in corso, non oscillava intorno al 3%, come atteso, ma intorno al 12,5%. Un’ulteriore rendicontazione porterà il rapporto reale al 15,5%. Successive indagini riveleranno come le dichiarazioni precedenti sullo stato delle finanze da parte delle autorità greche fossero state falsificate, e come gli organismi di controllo internazionale fossero stati inerti. È peraltro legittimo supporre che le autorità greche si sentissero incoraggiate ad un po’ di finanza creativa: già nel 2004 era stato ammesso che lo stesso ingresso nell’euro era avvenuto sulla base di dati taroccati, poiché il rapporto Deficit/Pil aveva sempre superato il 3% dal 1999. Nessuna conseguenza degna di nota ne era seguita, salvo un lieve aumento dei tassi di interesse greci, che non impedì l’ulteriore massiccio acquisto di titoli greci da parte delle banche internazionali.
Ma com’era stato possibile nascondere un dato macroscopico come la crescita fuori misura dei prestiti contratti sul mercato internazionale dei capitali? Niente di più semplice: come emerso nel 2010, a partire dal 2001 lo stato greco aveva pagato tra 200 e 600 milioni di dollari a Goldman Sachs e altre grandi banche di investimento affinché nascondessero tali operazioni. Con l’ingresso nell’euro (2001) gli interessi sui prestiti si erano ridotti e, nonostante il lieve aumento successivo al 2004, il governo greco di Kostas Karamanlis (Nea Demokratìa) aveva deciso di approfittarne.
L’effetto immediato dell’annuncio del 20 ottobre 2009 fu l’avvio di una serie ininterrotta di riduzioni del rating del debito greco da parte delle agenzie internazionali, con conseguente aumento dei tassi di interessi richiesti per rifinanziarsi.
Tutto ciò, naturalmente, si verificava nel contesto del secondo anno della crisi finanziaria mondiale da cui non siamo ancora usciti. La Grecia si ritrovò così con un debito pubblico al 129% del Pil e la sfiducia dei mercati internazionali nel bel mezzo della peggiore crisi dal 1929, crisi che aveva già cominciato a colpire settori strategici per la Grecia come il turismo. In questo contesto, numerosi osservatori internazionali dichiararono da subito che le condizioni di una ristrutturazione del debito (default, almeno parziale) erano inevitabili.
Inizialmente, nel dicembre del 2009, la Grecia si impegnò ad un piano di ‘consolidamento fiscale’ con la Commissione Europea, escludendo l’intervento del Fondo Monetario Internazionale. Il programma di stabilità sottoscritto aveva come obiettivo una riduzione del rapporto Deficit/Pil all’8% entro fine 2010, e al 5% nel 2011, per rientrare sotto il 3% nel 2012. All’inizio del 2010 vi fu un primo intervento, con un taglio del 10% nei salari e nelle spese del settore pubblico ed un aumento delle tasse indirette, in particolare sui carburanti. Il 3 marzo 2010 ci fu un secondo intervento, con la riduzione della tredicesima, un aumento del 2% dell’aliquota alta dell’IVA (al 21%), aumenti di tasse su tabacchi, beni di lusso, alcolici, il congelamento delle pensioni.
In quest’occasione, il Primo Ministro Gyorgos Papandreou, incoraggiato dai sondaggi favorevoli, parlò di una “lotta contro il tempo per tenere in vita l’economia greca” e della necessità di “prendere decisioni difficili, anche se talvolta ingiuste.”
Il 23 aprile 2010 Papandreou chiese formalmente un intervento di ‘salvataggio internazionale’, intervento cui erano chiamati a partecipare l’Unione Europea, la Banca Centrale Europea e il Fondo Monetario Internazionale (la cosiddetta Trojka). Il 2 maggio venne concesso un prestito di 110 miliardi di euro su tre anni (il più grande intervento di bailout rivolto ad un singolo stato mai promosso, e destinato peraltro a crescere). Tale aiuto era condizionato all’implementazione di severe misure di austerità economica, con tagli di spesa e crescita delle tasse per un ammontare di 30 miliardi di euro. La prima rata dei prestiti doveva servire a ripagare i debiti in scadenza il 19 maggio e senza quei fondi ci sarebbe stato un default.
È utile ricordare, di passaggio, cosa si intende qui per ‘salvataggio’. Il termine traduce l’inglese bailout, che deriva dalla pratica marinara di svuotare l’acqua che entra in un natante in avaria. Nonostante il termine italiano ‘salvataggio’ evochi qualcosa come il prode soccorso navale che porta in salvo i passeggeri, il bailout è propriamente un ‘aiuto a svuotare l’acqua’ che si va accumulando, ovvero, in concreto, è un’attivazione di prestiti con tassi di interesse e scadenze favorevoli rispetto a quelli di mercato. Il fine di un bailout è di fornire liquidità ad un paese in momentanea crisi di illiquidità, mentre non è un sistema per affrontare un problema di insolvibilità.
Mentre le piazze greche erano in rivolta, con i primi morti, tra maggio e luglio 2010 venne fatto passare un nuovo pacchetto di ‘riforme’: l’aliquota massima dell’IVA salì al 23%, vennero semplificate le procedure per il licenziamento dei lavoratori e si mise mano ad una radicale riforma del sistema pensionistico. Il 7 luglio il Parlamento approvò il passaggio del sistema pensionistico da retributivo a contributivo e l’innalzamento dell’età minima di pensionamento per donne ed uomini a 65 anni. L’implementazione completa del piano era graduata su dieci anni. Il ministro delle finanze Papaconstantinou annunciò: “in un colpo solo stiamo mettendo il sistema su di un percorso sostenibile, salvaguardando le future pensioni”.
Nel dicembre 2010, su richiesta della Trojka, il parlamento greco approvò un taglio ulteriore del 10% per cento dei salari pubblici superiori a 1800 euro e l’introduzione di un tetto (4000 euro lordi/mese) ai salari pubblici massimi. Altre misure richieste includevano l’aumento dell’aliquota minima dell’IVA dall’11% al 13%, la conferma del congelamento delle pensioni, la riduzione delle imposte sui profitti societari dal 24 al 20%, la riduzione dell’IVA relativa all’industria turistica dall’11% al 6,5%.
Nei primi mesi del 2011 al deteriorarsi dei fondamentali dell’economia greca (recessione del 9,8%, disoccupazione dall’11,9 al 17%), le agenzie di rating ridussero ulteriormente la valutazione del debito greco, fino a giungere al minimo livello considerabile. In risposta, il 29 giugno 2011 il Parlamento Greco approvò un nuovo pacchetto di misure di austerità, mentre in Plateia Syntagma si succedevano scontri e manifestazioni. Le misure includevano la privatizzazione dell’azienda elettrica di stato, aumenti di tasse sul reddito tra l’1% e il 5%, l’innalzamento delle tasse su bar e ristoranti, e sui combustibili da riscaldamento, oltre ad un abbassamento della soglia di esenzione fiscale individuale da 12.000 euro a 8.000. Inoltre l’11 settembre il governo impose una nuova tassa sulla proprietà della casa, da raccogliere direttamente attraverso la bolletta elettrica (il mancato pagamento comporta il distacco dell’elettricità).
2. ll primo default e le sue ragioni
L’evidente deterioramento della situazione indusse alla fine del 2011 ad avviare colloqui con la Trojka per giungere ad uno ‘haircut’ (taglio del debito). Dopo faticose trattative si deliberò un taglio del 50% dei crediti dovuti agli investitori privati. Pur trattandosi a tutti gli effetti di un default, il suo carattere venne tecnicamente dissimulato, adottando la forma della ‘rinuncia volontaria’: i creditori figuravano rinunciare volontariamente al loro credito. Trattandosi formalmente di una rinuncia volontaria ciò impedì l’attivazione dei Credit Default Swaps, gli strumenti finanziari avrebbero dovuto assicurare i creditori contro un default. Questa procedura, che richiese una considerevole attività di persuasione politica, venne scelta a causa della generale fragilità del sistema finanziario internazionale, che avrebbe mal sopportato un default incontrollato, con pagamenti miliardari agli assicurati. Il carattere di ‘rinuncia volontaria’ consentì tuttavia a parte dei creditori di sfilarsi dall’accordo: alla fine vennero coinvolti l’82,5% dei creditori privati.
È importante comprendere sia l’entità esatta che le condizioni di questo taglio del debito. Il debito greco totale ammontava, a fine 2011, a 350 miliardi di euro, dei quali 150 detenuti da istituzioni pubbliche (quelle della Trojka) e 200 detenuti da investitori privati. Il taglio del 50% incideva su questi ultimi e avrebbe potuto dunque ammontare a 100 miliardi (= 28% del debito totale). Non avendo partecipato tutti gli investitori privati il taglio effettivo fu in ultima istanza di circa il 24%. Un taglio comunque cospicuo, anche se lontano da haircut passati come il 75% dell’Argentina del 2002.
Bisogna tuttavia notare che la maggioranza dei 200 milioni di debito in questione erano nelle mani di investitori privati greci (80 milioni presso le banche greche e 35 milioni presso fondi pensione). Il taglio produsse dunque due effetti specifici sul sistema economico greco. Da un lato colpì le capitalizzazioni dei fondi pensione, toccando duramente le pensioni private dei greci. Dall’altro colpì le banche greche, già sull’orlo del fallimento, che, per tenersi a galla, richiesero urgente liquidità (tra gli 11 e i 14 miliardi di euro nell’immediato). Inoltre, per accettare tale accordo ‘volontario’ i creditori privati richiesero una una tantum al governo greco di 9,6 miliardi. Tutte queste somme, che lo stato greco non era in grado di anticipare, vennero fornite come ulteriori prestiti, condizionati a nuovi interventi di ‘riforma’. Si trattava di 34,4 miliardi di euro, di cui 23,8 miliardi servirono a sostenere il sistema bancario greco (e con ciò le banche ad esso creditrici), mentre 9,3 miliardi dovevano essere spalmati fino al 2013 per sostenere le spese dello stato greco, sotto specifiche limitazioni.
A fronte delle pesantissime proteste pubbliche contro le condizioni per la concessione dei prestiti, il 31 ottobre Papandreou annunciò un referendum, per lasciare al popolo la scelta se accettare o meno l’accordo: “Abbiamo bisogno di un ampio consenso – disse nell’occasione Papandreou – siamo parte dell’eurozona, il che comporta molti diritti e molti doveri. Terremo comunque fede ai nostri obblighi”.
A stretto giro di posta, una dichiarazione unitaria dei premier tedesco (Angela Merkel) e francese (Nicolas Sarkozy) chiariva che nel caso di esito negativo del referendum, ogni programma di aiuti sarebbe stato immediatamente interrotto. Il 3 novembre 2011 il referendum venne disdetto e il 6 novembre Papandreou rassegnò le dimissioni.
A questo punto (12 Febbraio 2012) al Parlamento Greco non restava che approvare le condizionalità imposte dalla Trojka. Esse includevano: un taglio del 22% del salario minimo, la cancellazione definitiva delle tredicesime, 150.000 licenziamenti nel settore pubblico entro due anni, tagli alle pensioni per 300 milioni, ulteriori facilitazioni legali ai licenziamenti, tagli alla sanità e alla difesa, libertà di negoziazione decentrata dei contratti, liberalizzazione dei settori sanitario, turistico e immobiliare, privatizzazioni per un valore atteso di 15 miliardi (incluse le due aziende pubbliche del gas).
Considerando retrospettivamente gli eventi tra la fine del 2009 e il default controllato del 2012, numerose voci si levarono a chiedere perché quello che sembrava un evento inevitabile sin dall’inizio fosse stato ritardato così a lungo, provocando due anni di pesantissima recessione e un peggioramento del quadro finanziario. Per giustificare la propria condotta il FMI ordinò di svolgere uno studio, pubblicato nel 2013 (Greece: Ex Post Evaluation of Exceptional Access under the 2010 Stand-By Arrangement). Lo studio del FMI, tecnicamente esaustivo ed esplicitamente autogiustificativo, fa emergere alcuni elementi degni di nota.
Il primo riguarda il grado di conformità (compliance) alle indicazioni di EU, FMI e BCE da parte della Grecia nel biennio che precede lo haircut. Nonostante la vastità e il dettaglio delle richieste si nota come la conformità sia stata, nel 2010, completa per oltre l’80% dei provvedimenti e parziale per il rimanente. Nel 2011 l’obbedienza era stata completa sempre per più del 60% dei provvedimenti, parziale per il resto, con la sola eccezione del primo quadrimestre 2011, dove figura un 15% dei provvedimenti non attuati. Ergo, nel periodo in cui le autorità internazionali avevano preso sotto la propria guida l’economia greca, in cambio di prestiti a tassi favorevoli, il governo aveva seguito le indicazioni che gli venivano dettate con un elevato livello di fedeltà.
Più interessante ancora è la ricostruzione del FMI delle scelte che condussero alla ristrutturazione del debito del 2012. Un immediato haircut sarebbe stata economicamente la miglior soluzione, afferma il report, tuttavia una tale prospettiva non era politicamente percorribile. E le ragioni erano semplici. La fragilità della situazione finanziaria internazionale nel 2009 era estrema e l’esposizione dei sistemi bancari europei (francese e tedesco in particolare) rispetto al sistema bancario greco rendevano un default con taglio del debito difficilmente sostenibile per il sistema del credito privato internazionale. Quanto alla Grecia, un default avrebbe comportato la necessità di un brusco rientro in avanzo primario (annullamento del deficit nella spesa corrente), giacché i prestiti sul mercato internazionale le sarebbero stati preclusi. In questa cornice un ‘salvataggio’, di entità molto più modesta di quelli di fatto avvenuti, sarebbe stato finanziariamente possibile, e ottimale per l’economia greca.
C’erano però due ragioni che impedivano di prendere questa strada, una pubblicamente sostenuta, una seconda accuratamente taciuta.
Quella pubblica era di non incoraggiare il “moral hazard”, cioè la tendenza di altri debitori a prendere alla leggera il proprio indebitamento, sapendo che poi una via d’uscita si sarebbe trovata. In sostanza, c’era il rischio che la Grecia in caso di default soffrisse meno di quanto normalmente un paese isolato in condizioni simili avrebbe sofferto, e questo lo si riteneva inaccettabile.
La ragione inizialmente dissimulata, anche se decisiva, era però un’altra. La ristrutturazione del debito greco in quel momento rischiava di innescare un contagio sul modello di Lehman Brothers, facendo fallire le banche private internazionali in credito con la Grecia, che erano in particolare le banche francesi e tedesche.
Qualcuno si potrebbe chiedere come mai le banche francesi e tedesche detenessero così tanti titoli di stato greci (119 miliardi, a fronte, per dire, dei 4 miliardi delle banche italiane). Le ragioni non sono trasparenti, ma possono solo essere dedotte. Verso la metà degli anni ’90 l’idea che una valuta comune europea divenisse realtà in tempi finanziariamente prossimi cominciò a diffondersi. Alcune banche private, curiosamente proprio quelle dei paesi politicamente decisivi per l’ammissione all’euro, Francia e Germania, ritennero di avere elementi sufficienti per scommettere sulla costituzione dell’euro (e sull’inclusione della Grecia). Questo li indusse a scommettere massicciamente su questa opzione, acquistando titoli di stato greci, a buon prezzo ed alta rendita. La scommessa fu fruttuosa: nonostante i dubbi sullo stato delle finanze greche, la Grecia in ultima istanza venne ammessa nell’eurozona, portando a un crollo dei tassi di interesse sulle nuove emissioni (dal 20% ad inizio anni ‘90 al 3% nel 2002). Le banche che così avevano scommesso ne trassero ampi profitti. Peraltro, come ricordato, l’acquisto di titoli proseguì anche dopo aver saputo (2004) dei camuffamenti contabili che avevano consentito di entrare nell’euro.
Ma quali che siano le origini di quell’esposizione bancaria, il nocciolo della questione era chiara: un default con taglio del debito a inizio 2010 non era un’opzione politicamente percorribile perché avrebbe messo a rischio le banche francesi e tedesche e attraverso di esse, con il meccanismo del contagio finanziario, forse l’intero sistema finanziario europeo. Perciò, scrive il report del FMI: “Una ristrutturazione immediata del debito sarebbe stata meglio per la Grecia, ma non era accettabile per i partner europei. Una ristrutturazione ritardata forniva una finestra affinché i creditori privati riducessero la loro esposizione, spostando il debito in mani pubbliche.”
A questo quadro può essere utile aggiungere un ultimo dettaglio, tratto dalle minute dei colloqui del FMI. Il governo greco stesso aveva rigettato ad inizio 2010 l’opportunità di un taglio del debito e, soprattutto, nei colloqui bilaterali intrattenuti dallo staff del FMI con le controparti greche (partiti, ONG, sindacati e rappresentanti del settore privato) era emerso, non senza sorpresa, che il settore privato greco appoggiava integralmente il programma di salvataggio e le riforme draconiane che venivano prospettate, vedendovi uno “strumento per farla finita con numerosi privilegi del settore pubblico”.
3. Nel gorgo del debito
Il 17 giugno 2012 si tennero le elezioni anticipate, innescate dalle dimissioni di Papandreou. Gli esiti condussero ad un governo di coalizione con primo ministro Antonis Samaras (Nea Demokratìa). Si passò così ad un’ulteriore fase di implementazione delle condizioni imposte per l’accesso al credito. Venne approvata una nuova riforma del sistema di tassazione, priva di carattere progressivo, con l’introduzione di una flat tax al 28% per tutte le attività di impresa. Vennero inoltre ridotte le esenzioni relative alla tassa sulla casa, abolito il bonus per le famiglie con bambini ed introdotto un tetto alla spesa massima per le cure sanitarie. Vi furono anche interventi di riforma in senso proprio, come la liberalizzazione delle professioni regolamentate dallo stato (come i notai) e la deregolamentazione dei mercati dei beni, dei servizi e dell’energia.
Nel novembre 2012 una nuova serie di interventi venne richiesta per ricevere la successiva rata dei prestiti internazionali: i salari dei dipendenti pubblici vennero tagliati di nuovo fino al 20% (e per i salari più alti fino al 30%); le pensioni vennero tagliate in media tra il 5 e il 15%; l’età pensionistica venne innalzata da 65 a 67 anni per gli uomini e venne introdotto un sistema di decurtazioni progressive per i pensionamenti anticipati.
L’obbedienza alle imposizioni della Trojka non fu però completa. Nonostante fossero stati richiesti, vennero respinti un ulteriore abbassamento del salario minimo, una riduzione del 30% delle compensazioni economiche per i licenziamenti, e il licenziamento immediato di 20.000 dipendenti pubblici (che invece vennero messi in ‘mobilità’ per alcuni mesi a salario ridotto).
Nel frattempo, alla luce dello scarso successo di mercato delle dismissioni finora avvenute, gli introiti attesi dalle privatizzazioni vennero corretti al ribasso, dagli attesi 19 miliardi a soli 11 miliardi.
Nel corso dei primi mesi del 2013 furono approvati ulteriori tagli di 15.000 posti pubblici, e in giugno vennero chiuse prima l’Orchestra Sinfonica Nazionale e poi la Radiotelevisione Greca (ERT, riaperta, a ranghi ridotti, da Tsipras quest’anno).
Nell’aprile del 2014 il governo annunciava con orgoglio il ritorno della Grecia sul mercato dei capitali, con la vendita di 3 miliardi di titoli di stato a 5 anni ad un tasso sorprendente basso del 4,95%. Secondo il Primo Ministro Samaras questo rappresentava “più che un trionfo”.
A ben vedere, tuttavia, le parole del ministro erano alquanto avventate, perché tale accesso al credito avveniva non sulla base di una ritrovata credibilità finanziaria del paese, ma sulla base di un ragionamento diffuso tra gli investitori: nonostante il debito greco continuasse ad essere ritenuto insostenibile, il fatto che la gran parte di esso fosse oramai nelle mani delle istituzioni internazionali e dei partner europei, creava una sorta di assicurazione. Ogni sforzo sarebbe stato fatto per tenere a galla il paese negli anni a venire, consentendo ai titoli di venire a scadenza prima di un’ulteriore ristrutturazione del debito.
Alla luce della minacciosa crescita della coalizione di sinistra Syryza nelle recenti elezioni locali ed europee, Samaras cercò di capitalizzare la ‘buona novella’ del ritorno della Grecia sui mercati anticipando di due mesi (come permesso dalla Costituzione greca) l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. La stessa Costituzione, tuttavia, impone che, in caso di mancata maggioranza per l’elezione entro il terzo tentativo, si debba andare ad elezioni anticipate. E questo fu precisamente ciò che avvenne.
Il 25 gennaio 2015 si tennero dunque le elezioni anticipate che diedero la vittoria a Syryza (al secondo posto Nea Demokrateia, al terzo il partito neonazista Chrysi Avgi (Alba Dorata)). Il leader di Syryza Alexis Tsipras diveniva così primo ministro in una coalizione dove a fornire i due voti mancanti per la maggioranza era il piccolo partito di centro-destra Anel, il cui leader Kammenos diviene ministro della Difesa. È importante notare che tale strana coalizione poteva formarsi solo grazie ad un unico, decisivo, punto di convergenza: il rifiuto della prosecuzione delle politiche di austerity dettate dalla Trojka.
4. Vae victis, ovvero i primi mesi del governo Tsipras
Facciamo ora il punto circa cosa è accaduto all’economia greca tra la fine del 2009 e la vittoria di Syryza.
In questi cinque anni la disoccupazione è salita dal 11,9% al 26,2%. Il prodotto interno lordo è decresciuto del 28,4%. Il debito è passato dall’essere il 129,7% del Pil nel 2009 al 184%. E va notato che quando lo haircut di fine 2011 venne deciso, il debito era ‘solo’ al 170%, e il taglio lo aveva ridotto temporaneamente al 156%. Di contro, le spese statali si sono ridotte da 125 miliardi all’anno nel 2009 a 82 miliardi/anno a fine 2014. L’avanzo primario nel 2014 (al netto del pagamento degli interessi) è il più alto dell’Eurozona (+5%). Simultaneamente, nonostante i pesanti aumenti di imposizione fiscale, le entrate statali si sono ridotte da 89 miliardi a 80.
E tutto ciò in presenza del più grande intervento di ‘salvataggio’ mai promosso per un singolo paese.
È però cruciale visualizzare il destino del fiume di denaro riversato dai creditori internazionali sulla Grecia. Tra inizio 2010 e fine 2014 gli aiuti internazionali sono ammontati a 226,7 miliardi di euro (194,8 miliardi dall’Eurozona, 31,9 miliardi dal FMI). Di questa somma soltanto 27 miliardi (pari a poco meno del 12%) è stato impiegato per le spese dello stato greco. Per un raffronto, il 53% (122 miliardi) sono serviti solo a pagare interessi sul debito e un altro 19% (48 miliardi) sono serviti a ricapitalizzare le banche greche.
È su questo sfondo che bisogna leggere la vittoria di Syryza alle elezioni. Syryza, erede del precedente Synapsismòs, è un partito che, diversamente dal Partito Comunista Greco (KKE) è fortemente europeista (cosa che la stampa internazionale, italiana in testa, fece fatica a capire per diversi mesi, continuando a parlare di Syryza come ‘movimento euroscettico’).
Sin dall’insediamento, il senso politico della vittoria di Syryza è stato chiaro, in Grecia così come nel resto d’Europa dove le politiche restrittive hanno colpito duramente (Spagna, Portogallo, Italia, ecc.). Sul piano tanto simbolico che strategico la vittoria di Syryza è stata vista come un possibile momento di svolta, capace di incoraggiare quelle tendenze politiche europee che, senza negare l’europeismo, erano avverse alla strategia dell’austerity.
Le parole di Tsipras all’insediamento non potrebbero essere più chiare: le politiche di austerity sono procicliche, approfondiscono il problema, non lo risolvono, e l’economia greca può riprendersi solo se le condizioni per i prestiti vengono riscritte consentendo investimenti e se il debito totale (risalito dopo lo haircut del 2011-2012 a 318 miliardi) viene ristrutturato.
Ancora più chiara la posizione del neoministro dell’economia Yanis Varoufakis (PhD ad Essex, docente in Texas). Infatti, oltre alle posizioni menzionate da Tsipras di cui sopra, Varoufakis aveva preso di mira il ‘fronte interno’ degli oligarchi greci, che avrebbero costruito un sistema che “toglie energia e potenziale economico ad ogni altro all’interno della società greca.”
Non meno chiara, tuttavia, è stata l’immediata risposta dei creditori dell’Eurozona: tutti, dal Commissario Europeo Pierre Moscovici, al Segretario del FMI Lagarde, al ministro delle Finanze tedesco Schäuble si sono affrettati a dire che dalla Grecia ci si aspettava né più né meno che il “pieno rispetto dei patti sottoscritti ed il pagamento del debito”, e che la Grecia “non doveva rappresentare un’eccezione nel panorama internazionale”.
Lo scontro tra le due linee divenne esplicito molto presto. Nel febbraio scorso, appena entrato in carica, il governo Tsipras dovette negoziare un nuovo prestito a sostegno del proprio sistema bancario, che perdeva depositi con un ritmo di due miliardi alla settimana. Alla fine di febbraio si giunse ad un compromesso politicamente molto costoso per il neoinsediato governo. In cambio della liquidità necessaria, estesa per quattro mesi (fino a giugno 2015), il governo greco accettò di rimanere vincolato agli obiettivi di budget precedentemente fissati. Venne però apparentemente concesso al governo di trovare strade diverse per giungere al medesimo esito, a patto cioè che i saldi rimanessero invariati. In quest’occasione Varoufakis ribadì che nuove strade sarebbero state trovate, impegnandosi contro ulteriori interventi di compressione del mercato interno, come tagli alle pensioni ed innalzamenti dell’IVA.
Indicativo dello spirito della negoziazione il commento compiaciuto di Wolfgang Schäuble all’uscita dalla trattativa: “Il governo greco avrà certamente grosse difficoltà a spiegare l’accordo ai propri elettori”.
Nonostante la fronda interna, Tsipras riuscì comunque a far passare le condizioni del prestito, anche in vista del nuovo appuntamento negoziale a breve termine (giugno). Tra febbraio e giugno Varoufakis girava in lungo e in largo per l’Europa, cercando di spiegare sia da un punto di vista tecnico che di visione politica le linee di una controproposta greca. I tratti di fondo di questa proposta erano (e sono):
1) Spostare l’onere della preservazione del vincolo di budget dalle tasse che colpiscono i consumi al recupero dell’evasione fiscale (da sempre drammatica in Grecia, ed aumentata dall’inizio della crisi), e togliere i privilegi fiscali di cui ancora godono gli oligarchi greci.
2) Limitare ulteriori interventi sulle pensioni alla chiusura delle ultime finestre rimaste per i pensionamenti anticipati, ricordando che le pensioni greche sono state tagliate in media dall’inizio della crisi del 44,2% nel settore privato e del 48% nel settore pubblico.
3) Semplificare la burocrazia per l’apertura delle imprese.
4) Regolarizzare un mercato del lavoro oramai totalmente frammentato, sommerso e incontrollabile, che anche perciò sfugge all’esazione fiscale.
5) Modernizzare radicalmente la pubblica amministrazione, ripulendola da diffuse pratiche corruttive e clientelari.
6) Giungere ad un taglio del debito significativo, che consentisse di riprendere gli investimenti, senza riservare ogni surplus ad un perenne rifinanziamento del debito.
7) Infine, l’auspicio che l’intero processo avvenisse sullo sfondo di una trasformazione delle istituzioni europee, con un’estensione del controllo politico e democratico su settori finora lasciati alle sovranità nazionali; dunque ‘europeizzando’ il settore bancario, parte del debito pubblico, gli investimenti aggregati e i programmi di sostegno al reddito.
Si giunse così alle trattative di giugno, in vista delle ulteriori scadenze di pagamento del debito. La negoziazione apparve sin dall’inizio ardua, con una prima proposta greca liquidata dagli interlocutori come ‘non seria’. Nei colloqui del 24-25 giugno una nuova proposta del governo greco venne rimandata al mittente con innumerevoli richieste di modifiche. Quest’ultima proposta greca accettava la richiesta di ulteriori tagli per un ammontare di 7,9 miliardi sugli 8,6 richiesti. La maggior parte di questa somma sarebbe stata ricavata da nuovi introiti (imposte su profitti delle imprese, su giochi online e beni di lusso, riforma del codice fiscale e delle esenzioni, gara pubblica per le frequenze televisive, aumento dello 0,74% dell’IVA), e con una riduzione di spesa limitata a una ricontrattazione delle spese per medicinali e test diagnostici, alla chiusura delle rimanenti possibilità di pensionamento anticipato, ad un aumento dell’1% delle contribuzioni sanitarie sulle pensioni, e ad un abbassamento del tetto di spesa per le spese militari.
La posizione di BCE, UE e FMI era però simmetricamente opposta: veniva chiesto che l’80% del budget provenisse da risparmi di spesa, e solo il 20% da nuovi introiti. La proposta del governo greco venne perciò restituita con correzioni che escludevano, o limitavano, forme di tassazione sui profitti delle imprese, respingevano la tassazione dei giochi online, aumentavano del 2% i contributi sanitari sulle pensioni, aumentavano l’IVA dell’1%, e chiedevano altri interventi sul sistema pensionistico. Olivier Blanchard, consigliere economico del FMI, affermò come fosse necessario portare la spesa pensionistica dal 16% del Pil al 15%, in linea con altri sistemi pensionistici europei. A niente è valsa la replica che, con un PIL caduto del 26%, attaccare le pensioni per inseguire un rapporto ‘virtuoso’ del 15% significava nell’immediato alimentare una spirale recessiva.
In ultima istanza, nonostante le posizioni in termini di budget si fossero avvicinate di molto, con la concessione da parte del governo greco di nuove riduzioni di spesa, e con la riduzione da parte della Trojka delle pretese di avanzo primario, la divergenza circa la strategia con cui ottenere il risultato apparve insanabile. I creditori respingevano la strategia politica sottesa alle proposte economiche greche, e ciò veniva fatto sostenendone l’incapacità di raggiungere gli obiettivi prefissati. Con la rata di pagamento al FMI di 1,6 miliardi in scadenza, e nell’impossibilità politica di stravolgere l’agenda su cui era stato eletto, il 27 giugno Tsipras annunciava di voler sottoporre a una consultazione popolare l’accettazione o meno delle condizioni imposte per accedere a nuovi prestiti.
Alla richiesta del governo greco di una proroga degli aiuti di sei (6) giorni, per consentire di svolgere il referendum senza pressioni, la BCE mobilitata dalla Germania negava ogni dilazione. Di conseguenza il 29 giugno le banche erano costrette a tenere chiusi gli sportelli, ed il 30 giugno la Grecia mancava il pagamento della rata dovuta al FMI, prodromo di un default.
Il 5 luglio il referendum dava il seguente esito: NO al 61,31%, SI al 38, 69%.
Continua nel prossimo numero….