Abramo, riattacca! Una risposta a Maurizio Ferraris.

 

 

Maurizio, non rispondere! In uno degli ultimi numeri di Scenari Maurizio Ferraris pubblica la prefazione al suo recente “Mobilitazione totale” (Laterza, 2015). L’espressione di Jünger viene usata dal filosofo del New Realism per significare l’arrière-ban implacabile e imperituro che promana ormai dai nostri device, e che ci trascina come automi a lavorare a tutte le ore del giorno e della notte, a rispondere a mail di lavoro la domenica sera o semplicemente a rispondere al telefonino mentre ci attanaglia il dilemma “ma chi me lo fa fare?”. Come golem risvegliati dai cicalini dei nostri smartphone, ci tiriamo su dal letto e andiamo a vedere chi ci ha scritto, perché, cosa vuole. Quando va bene. Perché in realtà spesso dormiamo con il telefonino sul comodino, dopo averlo tenuto di fronte alla nostra faccia nel buio della stanza, distesi e con le braccia indolenzite nel tentativo di reggere quel mezzo chilo di telefono che inesorabile ci casca in faccia quando cominciamo ad assopirci.

Ferraris chiama tutto questo sistema della chiamata Apparato. Non so quanto usi consapevolmente questo termine, però apparato è il termine che usa Althusser quando, in un saggio degli anni Settanta (“Ideologia e apparati ideologici dello Stato”, per l’appunto) descrive il processo di soggettivazione che, nella sua ambiguità — ben nota a Judith Butler, che se ne servirà nella “Vita psichica del potere” — promana dalla chiamata del rappresentante dello Stato. “Hé vous, là-bas!” è il poliziotto che chiama per la strada e alla cui chiamata ci giriamo di 180º. Quella rotazione è ciò che ci fa soggetti nel doppio senso di assoggettati e di sovrani, di sottoposti e di autonomi.

Althusser, nel descrivere quel fenomeno, dimentica due cose. La prima, che quella chiamata costituisce il soggetto ma allo stesso tempo, in quella che in un mio testo ho definito, nel discutere della chiamata, ‘teurgia politica’ (“Eccedenza sovrana”, Mimesis 2012), costituisce altresì il potere che chiama. In altre parole, il potere che chiama, così come il dio che interpella (interpellation è la parola che usa Althusser per descrivere la chiamata del poliziotto per la strada) desidera una risposta che lo metta al mondo, che lo costituisca teurgicamente così come dio, che pure viene detto pieno di gloria, ha bisogno per esistere (ovvero per venire a esistenza o quanto meno per continuare a esistere) di essere continuamente glorificato. Dio chiama Abramo. E Abramo risponde ‘hinneni’ (‘eccomi’, o meglio ‘vedimi’). Secondo la sapienza ebraica dei midrash, dio chiama Abramo perché ha paura di essere stato dimenticato. Satana lo sobilla, e lui, fragile, vuole essere amato, ha bisogno di conferme (“L’ordine chiede, come una preghiera  di  Dio, una dichiarazione d’amore che implora: dimmi che mi ami, dimmi che sei rivolto verso di me, verso l’unico, verso l’altro come unico – prima di tutto, sopra di tutto, in maniera incondizionata”, scriverà Jacques Derrida). Il potere, che si presume ferocemente arbitrario (lo dirà Pasolini in una nota intervista a proposito del suo Salò) è invece debole, come ben sapeva quel lampo sinistro della modernità che risponde al nome di Étienne de la Boétie. Implora di essere amato, come il dio di Abramo implora di avere una risposta. Un ‘eccomi’.

La seconda cosa, che Althusser oscuramente accenna ma non sviluppa, è che il chiamato, per essere tale, deve essere già in qualche modo un soggetto. Altrimenti il poliziotto chi starebbe chiamando? Vi è un soggetto precostituito, che precede la chiamata e che precede lo Stato. Chi è costui? È il soggetto portatore di diritti. Non i diritti ‘naturali’, posto che qualcuno sappia cosa sono. I diritti umani. Certo non meno difficile questione, poiché quella titolarità apre la domanda su chi abbia concorso alla loro formazione, al loro elenco, alla loro affermazione. E però oltre e prima dello Stato c’è un soggetto — Luisa Muraro direbbe che c’è perché nato dal seno materno nel contesto di una relazione d’amore di cui la filosofia politica non sa nulla, ma a noi non basta — che ha, in quando tale, un potere: quello di non rispondere alla chiamata.

Non rispondere vuol dire far implodere, collassare il chiamante. Negargli quel riconoscimento a cui anela per esistere. Fargli mancare da sotto i piedi il terreno dell’Anerkennung che in Hegel certo non conosce se non l’intersoggettività antropogenetica, ma che noi potremmo declinare in chiave teurgico-politica come costitutiva dello Stato stesso. Riconoscimento è una re-con-naissance, un nascere di nuovo insieme, un riconascimento. ‘Tu es’ è l’omofono di ‘tuer’, il tu sei che si evoca dal fondo uccisore di ogni imperativo. Tu Stato che mi chiami, che metti in moto i tuoi apparati, sappi che se la chiamata sarà molesta io non risponderò; e tu tremerai.

Affinché l’Apparato non esista, basta non rispondere. Non pronunciare alcun ‘hinneni’ che predisponga la nostra disponibilità: ““L’arrièreban  è […] una  Publizität  coatta che agisce  ininterrottamente;  tutti  sono convocati  in ogni istante, ogni giorno, da bandi secondari di bandi secondari. In ciò, dunque, consiste la ‘struttura oppressiva della società’, e non esistono né banditi né banditori, casomai si dà un esserci ormai  perennemente disponibile”, scrive Clio Pizzingrilli nel commentare quell’unico testo di Marx che si occupa dello Stato e che va sotto il nome di “Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico”. Certo però, al contrario di quel che dice Pizzingrilli, c’è un chiamante e c’è un chiamato, e quel chiamante ha bisogno per esistere della risposta del chiamato.

Basta dire di no. Oppure far finta di non aver sentito. Esattamente come quando per la strada uno scocciatore o un vecchio amico che non si ha voglia di salutare (se non sono la stessa persona) ci chiama e noi continuiamo a camminare, soavemente facendo finta di parlare al telefonino.



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