Buona Scuola, cattiva politica

 

 

1. Orgoglio e pregiudizio. Il successo dello sciopero della scuola del 5 maggio scorso ha apparentemente sorpreso il Governo e lo stesso premier: tale successo, a sentire le reazioni, sembra sia apparso inaspettato se non incomprensibile. Più di una voce, infatti, si è alzata osservando che in questi anni sono passate riforme giudicate peggiori, con reazioni minori, e il premier, orgoglioso come sempre della propria iniziativa politica, non riesce ad attribuire tale sollevazione se non a pregiudizio politico. Ma naturalmente nella storia, e dunque nella politica, non esistono comparazioni atemporali: si giudica sempre in contesto, laddove il contesto presente si deve far carico del relativo passato. Perciò dovrebbe essere chiaro a tutti come anche questa riforma non possa pretendere di essere valutata astrattamente, per così dire, mettendola accanto alle precedenti come in un concorso di bellezza: essa infatti si somma alle riforme precedenti, ereditandone gli oneri.

2. Una ventennale frenesia riformatrice. Ricordiamo allora brevemente, a noi stessi e al nostro premier, come siamo arrivati dove siamo ora. Negli ultimi vent’anni scuola ed università sono state costantemente ‘attenzionate’ dalla politica. Prima di questo periodo l’educazione statale era stata sempre saldamente nelle mani della Democrazia Cristiana, che aveva provveduto ad ‘insegnare la modestia’ all’istruzione laica, tenendola in dignitosa povertà e sotto stretto controllo (tutti i ministri dell’Istruzione della prima Repubblica, con trascurabili eccezioni, furono democristiani). Venuta meno la DC e con essa i suoi timori per una ‘deriva laicista’ del paese, a partire dal primo governo Berlusconi la scuola si è palesata alla politica nella figura in cui continua ad apparirle a tutt’oggi: come un ingombro fastidioso e politicamente improduttivo. Qualunque iniziativa in ambito scolastico dà infatti i suoi eventuali frutti ad anni di distanza, e dunque non rappresenta quell’investimento politico con ritorni personali a breve termine che attrae il politico medio. C’è tuttavia un piano su cui l’istruzione risulta materia spendibile sul breve termine, ed è quando si riesca a farne una bandiera ideologica, un simbolo. Questo è stato il destino della scuola negli ultimi vent’anni. Dell’educazione si è voluto fare un luogo di esercizio ideologico per ambiziosi dilettanti della pedagogia. Si è ritenuto di dover ‘modernizzare’ un sistema educativo, sottofinanziato ma non scadente, cercando di cucirgli addosso l’unico vestitino ‘moderno’ che il ceto politico aveva a disposizione nel proprio deprimente guardaroba ideale, il liberalismo economico.

Beninteso, ciò non significa affatto che in Italia si sia mai davvero imposta un’agenda di riforme liberali. Nei campi d’elezione dove tali riforme avrebbero potuto sensatamente applicarsi si è visto poco o nulla (dall’antitrust, al conflitto d’interessi, all’esistenza di ordini e corporazioni, ecc.) No, la modernizzazione liberale all’italiana è sempre stata una verniciatura simbolica da applicare preferibilmente in ambiti periferici (come la scuola) rispetto a quelli per cui la teoria liberale era stata elaborata.

Si cominciò così con la prima mini-riforma all’insegna del risparmio del ministro D’Onofrio, che abolì gli esami di riparazione (1995); e si proseguì poi con la Riforma Berlinguer, che modificava l’esame di maturità, eliminando i membri esterni delle commissioni (altro piccolo risparmio) e introducendo i quiz a risposta multipla, più una miriade di altre modifiche durate lo spazio di un mattino. La Riforma, scriveva già allora il ministro, era ispirata dalla “necessità di superare la distinzione, tipica del sistema formativo italiano tradizionale, fra cultura e professionalità e, quindi, fra formazione culturale e formazione professionale”. Ci furono in quest’ottica grandi progetti sulla modifica dei cicli scolastici, l’estensione simultanea dell’educazione professionale e dell’obbligo scolastico, ecc. ma non si fece in tempo neppure a studiarne l’implementazione che il tutto venne abrogato dalla Riforma Moratti (2003). Anche quest’ultima faceva grande sfoggio di pulsioni moderniste, introducendo fin dal primo anno delle elementari lo studio dell’inglese (senza insegnanti di inglese) e l’uso dei computer (senza fornire i computer). Ma prima di tentare una messa a punto di tutte le sue lodevoli intenzioni la Riforma Moratti venne a sua volta abrogata dalla Riforma Gelmini (2008), che innalzò il numero massimo di studenti per classe, ridusse le attività di sostegno e alfabetizzazione per i bambini con ritardi (o stranieri), ridusse il numero di insegnanti alle elementari tornando al ‘maestro unico’, ridusse il monte ore delle medie inferiori, ridusse di un terzo le ore negli istituti tecnici e professionali, ecc. ecc.

 

3. La sostanza economica. Ma mentre ferveva tutto questo attivismo riformista (di cui tacciamo, avendo lasciato tracce solo negli incubi del personale coinvolto), cosa succedeva in parallelo sul piano strutturale dell’investimento in educazione? È presto detto.

Dal 2000 ad oggi l’Italia ha investito meno di tutti gli altri paesi OCSE (tranne Grecia e Croazia) in istruzione, diminuendo gli stanziamenti netti di oltre il 5%, mentre in tutti gli altri paesi aumentavano. Questa diminuzione peraltro avveniva su di un terreno già tenuto virtuosamente a dieta dal legislatore, facendo sì che ad oggi (dati Istat) l’Italia sia buon’ultima nell’UE per investimento pubblico complessivo nell’educazione (4.6% del PIL, a fronte, per dire, di Danimarca (7,9%), UK (6.4%), Francia (6.1%), Portogallo e Spagna (5,5%), ma anche USA (6.9%), Australia (5,8%) ecc.). Non è difficile in questo contesto comprendere come il salario degli insegnanti sia al 17° posto su 23 paesi considerati dall’OCSE (a parità di orario). Quanto alle infrastrutture, stendendo il proverbiale pietoso velo su quelle tecnologiche, di cui abbiamo contezza per sentito dire, in Italia 2/3 degli edifici scolastici non sono a norma e più di un terzo (24.000 edifici) ha bisogno di interventi funzionali urgenti. Il quadro non sarebbe completo se non ricordassimo, anche se solo di passaggio, l’evoluzione della situazione nell’Università dove i tagli di denaro pubblico degli ultimi anni sono stati feroci (meno 15% in cinque anni), su una base che ci vedeva già prima della crisi al 32° posto su 37 nei finanziamenti OCSE; tali tagli peraltro sono stati effettuati in un contesto con il minor numero di laureati in Europa (22.4% contro la media del 37%), le tasse più alte d’Europa (salvo UK e Olanda) e una copertura di borse per il diritto allo studio che lascia fuori il 30% degli aventi diritto. E si potrebbe continuare, ma smetto per non annegare il lettore in statistiche e comparazioni, tutte concordemente impietose.

 

4. La realtà storica al netto delle intenzioni. Proviamo ora ad estrarre il senso complessivo di questi richiami. Negli ultimi vent’anni l’educazione pubblica italiana è stata sottoposta ad un’apparente frenesia riformista, caotica negli esiti, con decisioni che si sono spesso elise a vicenda, ottenendo l’unico risultato normativo di sommergere scuola ed università di adempimenti amministrativi rivelatisi di volta in volta inutili. Al netto di questo sterile movimentismo sono però comunque emerse tre linee di fondo.

In primo luogo, nel nome della retorica della modernizzazione si è avuto un incremento di controlli burocratici con carico di adempimenti amministrativi, controlli formali, e valutazioni (es.: Invalsi), ovvero qualche bel bastone e la perenne promessa di carotine a venire. Il senso, apparentemente ragionevole, di tali interventi era quello di creare una specie di equivalente pubblico di quella selezione che (quantomeno nei manuali d’economia) regnerebbe nei mercati: “Se sei pagato dallo Stato e non sei sottoposto al giudizio del mercato, hai l’onere della prova di dimostrare che fai qualcosa a fronte di questi danari”. Purtroppo, però, una volta fatto il gesto, ad uso del pubblico votante, di imbastire controlli e valutazioni, ci si è dimenticati di definirne le funzioni. Esemplare il caso dei test Invalsi, che a otto anni dalla loro prima introduzione continuano ad essere interpretati, a seconda del responsabile politico che compare in televisione, come una forma di giudizio degli insegnanti, oppure degli alunni, o dei dirigenti, o delle scuole o delle aree geografiche, cui dovrebbe seguire una riduzione di fondi, oppure un supporto economico, o forse una riorganizzazione amministrativa, o magari un commissariamento, o l’invocazione del giudizio di Dio… E poi quando di fronte a questo minaccioso marasma qualcuno manifesta scarso entusiasmo verso i test, si invoca l’arma retorica definitiva: l’accusa di essere dei codardi timorosi della valutazione.

In secondo luogo, tutte le varie riforme hanno reiterato l’aspirazione (implementata molto vagamente) di produrre un ‘avvicinamento tra scuola e lavoro’. Al di là dell’espressione promettente e garbata, l’idea di fondo è quella di vedere sempre più nella funzione formativa del pubblico non la preparazione di cittadini, ma la ‘produzione di produttori’. Curiosamente, nel dibattito pubblico viene presa per una verità autoevidente che la scuola debba assumersi il ruolo di introduzione al lavoro. Si cercherebbero però inutilmente ragioni circostanziate per cui la scuola dovrebbe fare (in modo necessariamente generico) ciò che apprendistati e formazioni in azienda hanno sempre fatto in modo specifico. L’unica, profonda quanto taciuta, ragione consisterebbe in uno spostamento di oneri formativi tradizionalmente svolti dalle aziende, sulle spalle dell’erario pubblico.

In terza istanza troviamo la linea di sviluppo più banale, ma anche la più importante per la capillarità delle conseguenze: lo Stato italiano ha orgogliosamente conservato e periodicamente accentuato, il proprio relativo disimpegno finanziario nei confronti dell’educazione, cercando di sostituire dove possibile cespiti privati a cespiti pubblici.

A tutte queste mosse appare sottesa, intenzionalmente o preterintenzionalmente, un’ispirazione di liberalismo economico che, nonostante il perenne stato di agitazione, fatica ad applicarsi ad un campo per cui non è nato.

 

5. La Buona Scuola. Proviamo ora a guardare in faccia il presente tentativo di riforma. La prima cosa da capire è che questa riforma, come e più di altre, è fatta di due parti, una esplicitamente scritta ed una da scrivere nei dettagli (decreti attuativi, ecc.), dettagli deducibili solo a partire dall’ispirazione di fondo. La riforma scritta di per sé consta di un numero limitato di interventi, così riassumibili:

1) conferimento di maggiore autonomia decisionale ai dirigenti scolastici su gestione delle infrastrutture e del personale;

2) mobilità per i docenti che, dopo aver vinto il concorso, non saranno vincolati ad alcuna sede, ma potranno essere dismessi da una sede su decisione del preside;

3) possibilità di rimuovere dopo un anno di prova i docenti ritenuti insoddisfacenti dai dirigenti scolastici;

4) obbligatorietà per tutti nel triennio delle superiori di fare stage presso aziende private o enti pubblici (400 ore per i tecnici, 200 ore per i licei);

5) ampliamento della possibilità di finanziare privatamente le scuole (5 per mille, bonus fiscale per eventuali donazioni in denaro ricevute da privati);

6) ampliamento delle detrazioni per le spese per scuole private;

7) messa a disposizione di 200 milioni (2016) da distribuire su base premiale a discrezione dei presidi al miglior 5% dei docenti; anche eventuali scatti di carriera non avverranno più per anzianità, ma per accumulo di crediti in cui un ruolo decisivo sembra avere di nuovo il dirigente scolastico;

8) disponibilità di 500 euro/anno pro-capite per spese di aggiornamento culturale del docente;

9) piano straordinario di assunzioni di 100.000 insegnanti con eliminazione delle graduatorie ad esaurimento ed ingresso futuro solo per concorso.

Ora, di questa riforma più o meno tutti considerano positivamente almeno gli ultimi due punti (8 e 9). Sono entrambi migliorabili, ma certamente sono migliorativi dello status quo. Inoltre, anche al netto del piano straordinario delle assunzioni (cui il governo è comunque obbligato da una sentenza) sembra che ci sia qualche fondo in più a disposizione rispetto al passato. Dunque, si potrebbe dire, perché inalberarsi?

Ci sono, naturalmente, il resto degli articoli, che commenteremo a seguire, ma per capire appieno il perché di una diffusa sfiducia ed irritazione bisogna ricordare che la più parte della riforma non è ancora scritta. La riforma attuale contiene ben 14 deleghe al governo, relative ai poteri del preside, all’abilitazione all’insegnamento, alla flessibilità nelle classi di concorso, al personale di sostegno, al riordino degli organi collegiali, al potenziamento delle attività pratico-laboratoriali, al finanziamento premiale, ecc. In pratica c’è una gran parte della legge che compare solo in forma di assegno in bianco dato al governo. Prima che qualcuno obietti che sollevare questo punto è sterile cultura del sospetto è opportuno ricordare che ad enunciare principi più o meno condivisibili sono buoni tutti: invero, tali enunciazioni sono state disseminate a piene mani in ciascuna delle precedenti riforme, solo per essere smentite o distorte a qualche mese di distanza. Ciò che in ultima istanza conta in una ri-forma sono i particolari di come si dà forma alle cose, non le generiche intenzioni all’altezza dell’ultimo battage giornalistico. Dunque, per giudicare bene la riforma bisogna completare il quadro di ciò che è scritto con ciò che è solo accennato, suggerito, o neppure quello. Tutto ciò si può solo indovinare partendo dalla visione di fondo.

6. La Visione. Ora, se cerchiamo di sintetizzare la visione della Riforma, possiamo scorgerne tre temi qualificanti, da leggere alla luce di quanto avvenuto in passato: a) il tema del finanziamento, b) il tema della meritocrazia, e c) il tema del rapporto scuola-lavoro.

a) Sull’aumento dei fondi. Una delle buone novelle annunciate dalla riforma della Buona Scuola è quella di un’inversione di tendenza nel finora costante sottofinanziamento dell’istruzione. Nella legge si parla di 200 milioni stanziati per una distribuzione premiale ai singoli docenti, oltre che di uno stanziamento di almeno un miliardo per il piano straordinario delle assunzioni. Si è poi parlato, senza però indicare né fonti precise né specifiche destinazioni, di un totale di 3,9 miliardi nei prossimi anni. Tutto ciò farebbe ben sperare: che sia ‘la volta buona’?

Certo, può lasciare perplessi il fatto che simultaneamente si apra la possibilità di finanziamenti privati, che di solito sono l’anticamera di un disimpegno statale. Ma questa è naturalmente mera cultura del sospetto, sia pure con una solida base induttiva. Ci sarebbe poi qualche altro particolare che non quadra del tutto, come il fatto che ci sia appena stato in finanziaria un taglio di 450 milioni alle scuole in termini di posizioni A.T.A. (2020 in meno). Ma anche questo potrebbe essere solo un dettaglio, un ultimo taglietto (dopo una riduzione di 8 miliardi negli scorsi anni), prima dell’agognata inversione di tendenza. E la verità è che tutti noi vorremmo davvero crederci: “I want to believe”, come recitava il poster di X-files. C’è purtroppo un ultimo ingombrante dettaglio. Al netto delle promesse, il Documento di Programmazione Economica e Finanziaria prodotto da questo governo spiega che la spesa per l’istruzione è prevista in costante diminuzione in percentuale sul PIL per i prossimi 15 anni, toccando un abissale 3.3% del PIL nel 2030 (sic).

Ecco, ora va bene appellarsi all’ottimismo della volontà, alla fiducia nel futuro, all’amore per il Leader, ma temo che la richiesta di atti di fede secondo la formula credo quia absurdum vada ancora al di là di quanto un governo possa legittimamente chiedere ai propri cittadini.

 

b) Sulla ‘valutazione premiale’. Un secondo punto apparentemente del tutto ragionevole sembra essere l’appello alla meritocrazia: è del tutto sensato che chi fruisce di un reddito pagato dal pubblico sia pubblicamente valutato. In verità ci sarebbero per ciò già i concorsi pubblici (peraltro sospesi da anni), ma si aggiunge qui l’idea, anch’essa ragionevole, di avere da un lato una perdurante spinta incentivale al miglioramento durante la carriera didattica e dall’altro di avere la possibilità di liberarsi di eventuali pesi morti (docenti neghittosi ed incapaci). Personalmente trovo entrambe queste istanze, anche se non primarie, comunque condivisibili; ma temo che non sia questo il punto. Non basta infatti brandire con enfasi parole come ‘merito’ e ‘valutazione’ per ottenere ciò che si evoca. Il refrain della meritocrazia e del premio allo sforzo individuale ha dietro di sé un’ubertosa tradizione retorica, anche nelle riforme della scuola, ma ben poca sostanza operativa. Ciò che ci si deve chiedere è: il sistema ‘meritocratico’ qui escogitato è in grado di fornire ciò che promette? Prendiamo i due estremi della scala: i ‘pessimi’ (P), di cui ci vogliamo liberare, e gli ‘ottimi’ (O) che vogliamo premiare rendendoli esempi virtuosi.

Questo sistema è in grado di liberarci dei (P) del sistema? No, non lo è; in effetti è persino meno efficace del gracile sistema attuale degli ispettori, che almeno permette la cacciata in casi estremi. Qui ciò di fronte a cui ci troviamo è una situazione in cui il preside, che assumiamo per ipotesi ‘illuminato’, potrebbe trasferire i vari (P) generando un sistema in cui nelle scuole meno ambite come locazione finirebbe per concentrarsi la morchia del sistema. Dunque è una soluzione al contempo dubbia nei modi (per la concentrazione di poteri in un singolo giudicante) ed inefficace nei fini, anche se tutto funzionasse al meglio.

Prendiamo l’estremo opposto e supponiamo che il nostro preside illuminato individui sempre con occhio di lince gli (O) del sistema, conferendogli premi monetari e permettendogli avanzamenti di carriera. Questa forma di premialità ha due caratteristiche: è attribuita da un giudizio soggettivo insindacabile e fornisce riconoscimenti economici differenziando un’élite minoritaria all’interno della compagine docente. Supponiamo ora che, magicamente, tutti i presidi della nazione fossero esenti da errori cognitivi e pecche morali. Ciononostante il fatto stesso che il loro giudizio sia individuale ed insindacabile lo rende passibile di sospetto di avere predilezioni più o meno torbide: chi risulterà tra i non eletti (al momento, il 95%) non potrà che leggere la valutazione come un misconoscimento personale (e tanto più se ci ha provato ad essere ‘bravo’). Di più: supponiamo per un attimo che un gruppo di docenti sia composto da insegnanti tutti di qualità simile (al limite tutti straordinari). Il dirigente scolastico non può premiarli tutti, ma dovrà sceglierne comunque qualcuno (il 5%), trattando perciò ingiustamente gli altri (magari insegnanti parimenti eccellenti). Il risultato netto di un sistema del genere è chiaro: invece che un incentivo a far bene si genera una maggioranza di scontenti e recriminanti, creando con ciò un potente ostacolo alla cooperazione, necessaria in un contesto come quello scolastico. Il punto, anticipando possibili obiezioni, non è che la ‘valutazione’ vada necessariamente respinta, né che sia impossibile istituirla. Se lo si vuol fare, si può farlo, ma, come accade in altri paesi, solo in forme che hanno un aspetto il più possibile ‘terzo’ ed obiettivo. Altrimenti la valutazione finisce solo per suscitare ostilità, gelosie, sospetti e frustrazioni, ingenerando più danni di quelli cui potrebbe mai porre rimedio.

In effetti, il modello del dirigente scolastico come giudice inappellabile è semplicemente una scadente imitazione del modello privatistico-aziendale in un ambito in cui non c’è alcuna possibilità, neppure di principio, di formarsi un giudizio attraverso strumenti come la misurazione del contributo marginale alla produzione e simili. Detto meno tecnicamente: si tratta di fuffa travestita da buon senso popolare.

 

c) Sulla produzione di produttori. Veniamo infine all’idea di una necessaria intensificazione dei legami scuola-lavoro. Anche questa è un’idea che circola da anni e che ha già informato precedenti tentativi di riforma. Dietro un’idea del genere c’è una lettura della realtà economica perlomeno dubbia, secondo cui (come recentemente sostenuto da quel paradigma di meritocrazia che è il sottosegretario Martone) l’elevata disoccupazione giovanile italiana sarebbe dovuta ad una formazione inadeguata sul piano pragmatico. Ora, anche i sassi sanno che la dinamica della disoccupazione italiana, giovanile e meno giovanile, è innescata da una crisi della domanda interna, e che i ragazzi italiani che sono costretti ad andare all’estero per lavorare spesso si fanno valere in modi semplicemente indisponibili nel nostro paese. Naturalmente, come spesso nelle discussioni sulla scuola, la realtà è solo un volgare ostacolo sul glorioso cammino di una bella idea; e quale idea è più bella di quella di un sano ritorno al lavoro manuale come ricetta per la disoccupazione: in fin dei conti, come pensavano nell’Inghilterra del ‘700, “se non lavorano sarà ben colpa loro”.

Ora, se di ciò non si volesse fare la solita bandierina ideologica del liberalismo all’amatriciana, si potrebbe senz’altro guardare ad alcuni ambiti specifici e circoscritti (es.: l’ultimo anno di un istituto tecnico o professionale, o l’ultimo anno di ingegneria all’università) dove un’interazione lavorativa diretta appare di mutuo beneficio, per le aziende e per i discenti. Ma siccome ciò di cui ne va è essenzialmente un messaggio ideologico, da poter spendere con quattro slogan alle prossime elezioni, ne segue che simili aggiustamenti devono assumere l’aspetto ambizioso e farsesco di ‘rimedi alla disoccupazione’, se non di una pedagogia moraleggiante per le nuove generazioni.

 

7. Conclusioni. Da tempo, a fronte di famiglie sempre più distratte e assenti (magari semplicemente per necessità lavorative) ci si rivolge alle scuole elevando richieste di assunzione di responsabilità e di intervento pedagogico. Ogni qual volta si incontrano comportamenti socialmente disfunzionali o individui con drammatiche minorità culturali (alcuni dei quali, peraltro, con uno scranno in parlamento), si levano lamenti nei confronti di una scuola incapace di far fronte alle nuove sfide. Ma il gioco della politica italiana nei confronti della scuola (e dell’università) è stato finora un gioco sporco fino alla sfacciataggine. Si sono pretese a parole sempre più cose, lamentando le insufficienze dell’istituzione, ma senza pensare neppure per un momento di metterla nelle condizioni per fornirle, mettendo mano al portafoglio. Naturalmente, le risorse non sono tutto e non basta stanziare soldi per avere risultati. Ma altrettanto naturalmente finanziamenti adeguati sono un sine qua non, senza il quale solo l’infinita sciatteria di una classe dirigente presuntuosa ed approssimativa potrebbe pensare di infilare una dopo l’altra riforme a costo zero o negativo, migliorando con ciò il sistema. L’assoluta malafede è infine visibile nel più semplice dei dati. Se ne fosse mai davvero andato di tentare una riforma sostanzialmente migliorativa dell’educazione pubblica si sarebbe fatta la cosa più ovvia: si sarebbe rivolto lo sguardo ad uno dei sistemi che, per riconoscimento generale funzionano in modo eccellente (Finlandia, Corea del Sud, Nuova Zelanda, Canada), e si sarebbe fatto il tentativo di importarlo, eventualmente con minori aggiustamenti. Naturalmente niente di tutto ciò è passato per la mente del legislatore, giacché tutti questi sistemi, adottano sì soluzioni tecniche specifiche, ma lo fanno su di una piattaforma di finanziamento rilevantemente superiore, che nessuno ha mai voluto prendere in considerazione.

Ma lasciamo pure da parte la questione, pur cruciale, delle risorse. Ciò che l’attuale governo, nella scia di quelli che lo hanno preceduto, non sembra capire è che la scuola non è proprio niente di simile all’azienda ideale degli economisti (ed invero neppure molte aziende reali lo sono). Sono ambiti in cui le persone sono chiamate a convivere e collaborare quotidianamente, dove idee di competizione individualistica e divisiva sono semplicemente controproducenti. Qualunque soluzione incentivale che volesse essere adottata deve tener conto di ciò, e dunque deve presentarsi come riconoscimento non arbitrario, cui possono accedere di principio tutti, ed in cui eventuali differenze di reddito siano correlate a differenze nei compiti e nelle responsabilità. Al contrario le soluzioni proposte con la riforma attualmente in discussione sono una volta di più un esercizio di trasposizione superficiale alla scuola di modelli estranei (aziendali-padronali).

Renzi fa mostra di non comprendere come mai il ‘popolo della scuola’ non capisca quanto lui sia ‘diverso’ e ‘nuovo’; egli ritiene che chi si oppone al suo impianto ‘meritocratico’ lo faccia perché vittima di ideologie vetuste; e questo è un peccato, perché se provasse a guardare le proprie proposte da vicino potrebbe forse accorgersi di quanto suonino esse stesse ideologicamente retoriche e stantie. Sarebbe bello se, per una volta, si provasse ad entrare nel dettaglio di come si può ottenere cosa, invece che promettere l’ennesima ‘rivoluzione liberale’ in un campo dove questi appelli sono tecnicamente fuori luogo. La scuola così finisce per ridursi, una volta di più, a campo di sperimentazione di un’ingegneria sociale dilettantesca e ideologica, di cui nessuno, davvero nessuno, sente il bisogno.



Scenari. Il settimanale di approfondimento culturale di Mimesis Edizioni Visita anche Mimesis-Group.com // ISSN 2385-1139