Trilobiti di plastica: il video analogico e la sua distruzione

 

E alla fine arrivò. La grande ondata prevista da Italo detto Alito, protagonista del romanzo Emilia Parabolica di Massimo Zamboni, invase tutta la pianura padana restituendo al mare ciò che il Po, col suo muto lavorio, gli aveva tolto. L’acqua salmastra, tuttavia, non si fermò alla bassa: salì fino a coprire l’intero arco appenninico. Il grande tsunami, andando ben oltre le previsioni di Italo detto Alito, sommerse l’intera penisola.

Molti anni dopo, in un ghiacciaio sudtirolese – le uniche regioni sopravvissute al disastro, infatti, erano quelle alpine – vennero ritrovati di fianco a fossili di ammoniti e trilobiti alcuni ammassi di plastica. Apparentemente informi, questi ammassi avevano in realtà una conformazione particolare: erano quegli strumenti che, alla fine del ventesimo secolo, venivano utilizzati per comunicare o, più semplicemente, per registrare la memoria del proprio quotidiano. Gli alpinisti della missione osservarono con aria interrogativa quelle strane cassette. Incuriositi cercarono di svolgere le bobine: trovarono soltanto metri di nastri grigi che, al contatto, lasciavano macchie scure sulle dita. Non sapendo che farsene, decisero di infilarle in uno scatolone e di buttarle non appena possibile.

Questo breve aneddoto, legato a un’improbabile profezia, consente di porre in evidenza un problema che, da qualche anno a questa parte, sta diventando sempre più incalzante: che è successo a tutti quei materiali in video analogico a cui, a partire dalla fine degli anni Settanta, abbiamo affidato i nostri ricordi? A causa delle difficoltà di reperimento dei dispositivi di lettura, si è preferito mettere in atto un semplice protocollo di rimediazione e, in questo modo, trasferire i contenuti da videocassetta e da nastro open reel analogici a file digitale? Oppure, come i nostri alpinisti, abbiamo deciso di buttare materiali diventati, per noi, inerti?

A un livello superficiale, le questioni legate alla conservazione domestica dei video analogici amatoriali sono, così, molto simili a quelle dei film amatoriali. A circa quarant’anni dal loro ingresso sul mercato, e dopo essere stati sostituiti dai formati digitali, i video analogici si ritrovano nella fase della propria distruzione. Nel celebre articolo del 1992, intitolato Storia delle distruzioni e pubblicato sul numero 19 di Cinema&Cinema, Raymond Borde delinea i caratteri storici delle tre grandi fasi di distruzione dei film, avvenute alla fine della Prima Guerra Mondiale, alla fine degli anni Venti con l’avvento del sonoro e con la scomparsa del nitrato negli anni Cinquanta. A queste potremmo aggiungere, riprendendo Rossella Catanese e il suo Lacune binarie, soprattutto i passaggi in cui la studiosa fa riferimento ai pensieri di Borde e di André Habib (il quale, in “Memoire, histoire, ruines. Les archives du film ou la nouvelle melancolie du cinema”, sostiene che la distruzione dei supporti filmici è parte essenziale del cinema), altre due fasi: la distruzione dei film amatoriali, avvenuta negli anni Ottanta durante la fase di affermazione del video analogico come strumento di testimonianza della quotidianità, e il passaggio al digitale, di cui si cominciano a scorgere gli effetti solo ora.

Per una sorta di nemesi storica, il video analogico, considerato la causa principale della scomparsa del film amatoriale, è sottoposto ai capricci della medesima sorte: non abbastanza “antiche” perché sia possibile riconoscere loro un valore storico, troppo comuni perché vengano considerate degne di essere conservate, le videocassette e le bobine open reel appartengono al limbo in cui l’obsolescenza – tecnologica e funzionale – giustifica dal punto di vista pragmatico la digitalizzazione dei contenuti e la distruzione dei supporti. Si tratta, come nel caso delle pellicole, molte delle quali, prima di essere gettate nella spazzatura, sono state affidate alle cure di chi aveva il compito di copiarle su nastro analogico, di un grave errore di valutazione. Innanzitutto per una questione relativa alla durata della tecnologia digitale su cui vengono inscritti i contenuti: per quanto riguarda tali supporti, infatti, non abbiamo riscontri empirici che indichino entro quale intervallo di tempo l’hardware non riuscirà più a leggere i dati. Inoltre, vanno considerati l’obsolescenza dei codec di compressione, che può portare, soprattutto per le digitalizzazioni meno recenti, a problemi di incompatibilità di lettura, e la qualità delle compressioni dei file video. Il rischio, insomma, è stoccare quelle riserve di memoria personale afferenti all’ambito della memoria protesica su un supporto tecnologico esterno che non è più in grado di riprodurle.

La velocità con cui le tecnologie digitali si avvicendano e divengono obsolescenti rende così essenziale la conservazione degli originali, anche quando questi sono costituiti da una videocassetta o da una bobina open reel, strumenti considerati spesso troppo fragili per essere conservati. La posta in gioco è più alta di quanto non si pensi. Il rischio non è solo la perdita dei documenti attraverso cui possiamo ricostruire la nostra società tra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Novanta, ma è la perdita di uno strumento capace di riattivare la nostra memoria proprio quando questo lasso temporale si allontana definitivamente dalla cronaca ed entra nel campo della storia. In altri termini, la distruzione dei nastri magnetici avviene in un momento in cui, riattivando la nostra memoria attraverso una videocassetta o una bobina open reel, potremmo, in maniera paradossale, fare esperienza di quella convergenza discorsiva che caratterizza la trasformazione in storia di ciò che riteniamo strettamente personale.

L’alternativa, purtroppo, non è data. L’alternativa, infatti, è ben rappresentata dai nostri alpinisti: rimanda all’incapacità di dare valore a quei supporti fisici su cui si inscrive una memoria destinata a rimanere muta. E a noi non resterebbe altro che guardarci negli occhi e chiederci a che cosa servono queste anticaglie tecnologiche. Come i nostri alpinisti, non riusciremmo a comprendere in quale modo un contenuto privato diviene parte di un racconto collettivo.



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