INTERSTELLAR E’ IL “GFA” (GRANDE FILM AMERICANO)?

Da qualche tempo l’editoria americana, e i commentatori europei a ruota, si stanno chiedendo se sta tornando di moda l’aspirazione a scrivere the great american novel. Mito fondativo della letteratura nazionale, il “grande romanzo americano” (da qui in poi GRA), viene rappresentato nel passato dai capolavori di Melville, Steinbeck, Faulkner e altri grandi maestri. Il postmoderno (che in letteratura viene datato assai prima che nel cinema) aveva dato la sensazione che non solo il GRA ma persino la volontà di scriverne uno fossero ormai tramontati. Infine, passata la sbornia citazionista e metaletteraria, ecco che negli anni Duemila scrittori come il compianto David Foster Wallace, ma soprattutto Jonathan Franzen (con Le correzioni e Libertà), Jeffrey Eugenides (Middlesex), Donna Tartt (Il cardellino), Philipp Meyer (Il figlio), Jonathan Lethem (I giardini dei dissidenti) e altri assai ambiziosi autori hanno spinto i critici a riesumare il GRA, chiedendosi quali di questi meritasse l’ambito – e astratto – titolo.
«Si tratta solo di uno slogan per rianimare l’editoria», ha affermato uno degli interessati, Eugenides, eppure non si può negare che alcuni romanzi americani di questi anni mostrino un approccio tutt’altro che dimesso alla narrazione e alle mete da raggiungere. Ma in che cosa consiste un GRA? Certamente deve possedere un grande respiro, anche quantitativo; dispiegarsi preferibilmente su più epoche della storia statunitense; coinvolgere molti personaggi; toccare tanti aspetti della cultura statunitense, dalla società alle professioni passando per l’industria; mescolare suggestioni moderne a impianti drammatici non lontani dalla narrativa ottocentesca, con saghe famigliari, amori contrastati, passioni e lutti, ovviamente gestiti in maniera autorevole e non ingenua.
Abbiamo pensato al GRA vedendo Interstellar di Christopher Nolan. E ci siamo chiesti: esiste il GFA (Grande Film Americano)? E se esiste, Interstellar lo è? La risposta può essere senz’altro affermativa, a patto di ammettere che nel cinema americano questa categoria, o anche solo un’aspirazione del genere, non c’è. Si può trovare nella serialità televisiva, certo: da I Soprano a Breaking Bad molte serie recenti possono essere considerate ottimi esempi di GRA per piccolo schermo. Dalla loro però avevano il vantaggio della lunga durata. Un film deve fare tutto in due-tre ore.
Quali potrebbero essere dunque considerati i GFA degli anni Duemila? Per esempio Il petroliere di Paul Thomas Anderson, o The Social Network di David Fincher, o Gran Torino di Clint Eastwood, o The Tree of Life di Terrence Malick o Boyhood di ,Richard Linklater, film diversissimi tra loro eppure accomunati dall’ambizione di narrare – attraverso storie particolari – un gran pezzo di America, anzi di americanness.
Oggi queste sensazioni giungono, moltiplicate, da Interstellar. Il genere fantascientifico, in questo caso, conta poco. O meglio conta perché permette a Nolan di usare “testualmente” i grandi passaggi di tempo e di spazio che il GRA richiede in letteratura, grazie alle discrasie temporali e ai whormholes fanta-geografici. Nolan, del tutto consapevole dei simboli presenti nel film, srotola le grandi figure di un possibile GFA, dal tema dell’America agricola alle citazioni di Emerson, dall’idea degli Stati Uniti come esploratori alla griffihtiana (ri)nascita della nazione e a tutti gli altri elementi che la critica ha messo in luce in queste settimane.
Rimane da capire se la cosa in sé, il GFA o qualsivolgia nome vogliamo dare a questa ambizione, ci interessa o meno. Chi scrive è propenso a prendere più che a lasciare, ma solo il tempo ci dirà se i presunti GRA (e questo GFA) hanno resistito alla prova dell’usura.



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