Cosa si nasconde dietro l’espressione “ideologia del genere”?

Nei giorni scorsi il Ministro dell’Interno, dinanzi alla decisione di alcuni Sindaci di trascrivere nei registri dello stato civile alcuni matrimoni tra persone dello stesso sesso celebrati all’estero – al fine di garantire loro una facilitazione nella prova dell’acquisito stato coniugale in tutti i contesti (ad es., i Paesi europei in cui due persone dello stesso sesso possono contrarre matrimonio) e in tutti i casi (ad es., tutte le volte in cui bisogna applicare anche in Italia norme di derivazione comunitaria) in cui l’essere coniugi è giuridicamente rilevante – ha ordinato la cancellazione di tali trascrizioni per il tramite dei Prefetti. E ciò ben sapendo che le norme vigenti sullo stato civile riservano tale potere alla magistratura ordinaria. Si è violata in tal modo una garanzia che l’ordinamento appresta a tutela della sfera familiare contro le ingerenze del potere esecutivo, dal momento che, prima dell’avvento della Repubblica, il Governo si era fatto promotore – tra l’altro – di norme volte a impedire la celebrazione di matrimoni sulla base dell’appartenenza a una certa “razza”. Era il 1938.
Contro un abuso di potere tanto eclatante da parte del Ministro dell’Interno, non si è levata nessuna voce autorevole, men che meno nella sua compagine governativa, nel disinteresse o forse nella tacita approvazione dei più. Non dico che occorresse reagire a tutela delle persone omosessuali, ma almeno a tutela di un principio cardine dell’ordinamento: l’inesistenza di un potere discrezionale dell’esecutivo che restringa i diritti fondamentali dei cittadini, in assenza di una norma che, nei casi e nei limiti stabiliti dalla Costituzione, espressamente glielo attribuisca.
Richiamo questa vicenda perché mi pare paradigmatica dell’agire in ogni contesto sociale di un meccanismo di controllo più o meno penetrante, più o meno istituzionalizzato, sulla sessualità. Nel difendere la “naturalità” del binarismo sessuale, che impronterebbe – secondo una certa lettura del sistema giuridico vigente – l’istituto matrimoniale, non ci si avvede di come ciò sia frutto di un processo discorsivo storicamente e culturalmente determinato, sviluppatosi prevalentemente nell’ambito giuridico, ma sostenuto nel tempo da strutture sociali di carattere religioso, politico e amministrativo (fa il punto della situazione sul dibattito italiano il recente volume Omosessualità, eguaglianza, diritti. Desiderio e riconoscimento, (a cura di) Angelo Schillaci, Carocci, 2014). Tanto è vero che i modi di “fare famiglia” differiscono nello spazio e nel tempo e prescindono molte volte dallo stesso matrimonio e dalla presenza di una coppia di persone di sesso differente (Cfr. Francesco Remotti, Contro natura. Una lettera al Papa, Laterza, 2008). È contro ogni evidenza sostenere che il matrimonio in senso egualitario “distrugga la famiglia” (concetto ribadito dal Card. Angelo Bagnasco nel suo Discorso di apertura alla 67/a Assemblea della Conferenza Episcopale Italiana, tenutasi ad Assisi dal 10 al 13 novembre 2014). L’esito di una tale riforma, semmai, consente di ampliare il concetto di famiglia giuridicamente rilevante e quindi la platea delle persone che in tal modo possono vivere solidalmente un progetto di vita, sicure grazie alle tutele che lo Stato riconosce loro.
Ora nessuno nega che i corpi dei maschi e i corpi delle femmine si possano considerare differenti, ma ciò non ci esime dal porci alcune domande. Tra le tante: in che rapporto stanno le strutture sociali (per esempio l’ordine tra i sessi) e le categorie mentali attraverso cui percepiamo il mondo e vi agiamo? In che rapporto stanno le strutture sociali e gli automatismi corporei che caratterizzano il nostro essere nel mondo? Che succede ai corpi quando entrano in relazione con altri corpi? I corpi dei maschi e delle femmine assumono un significato sociale univoco in tutte le latitudini e in tutti i tempi? Cosa succede poi a quei corpi che hanno caratteristiche che non coincidono perfettamente con quelle che attribuiamo costantemente ai maschi e alle femmine? (sono domande che ricorrono nei saggi contenuti nel volume ALTER-azioni. Introduzione alle sociologie delle omosessualità, (a cura di) Cirus Rinaldi, Mimesis, 2012; in una prospettiva storica si vedano Marzio Barbagli, Storia di Caterina che per ott’anni vestì abiti da uomo, Il Mulino, 2014; Culture della sessualità. Identità, esperienze, contesti, (a cura di) Enrica Asquer, Genesis, n. XI/1-2, Viella, 2012; Laura Schettini, Il gioco delle parti. Travestimenti e paure sociali tra Otto e Novecento, Le Monnier, 2011; Corpi e storia. Donne e uomini dal mondo antico all’età contemporanea, (a cura di) Nadia Maria Filippini, Tiziana Plebani e Anna Scattigno, Società italiana delle storiche, Viella, 2002).
Il senso comune conduce all’affermazione che “per natura i sessi esistenti sono due”. Eppure – tralasciando qualsiasi considerazione degli studi di etologia, su cui si rinvia a Bruce Bagemihl, Biological Exuberance. Animal Homosexuality and Natural Diversity, St. Martin’s Press, Stonewall Inn Editions, 2000 – si stima che almeno nell’1,7% dei nati (Anne Fausto-Sterling, The Five Sexes: Why Male and Female Are Not Enough, in The Sciences, marzo/aprile 1993, p. 20-24 e Ea., The Five Sexes Revised, in The Sciences, luglio/agosto 2000, p. 18-23) tale netta distinzione (fondata in un primo tempo sull’osservazione dei caratteri sessuali primari, poi sugli ormoni, e poi, con lo sviluppo della genetica, sul corredo cromosomico della persona) non corrisponde ai fatti (in una prospettiva storica si veda Herculine Barbin detta Alexina B., Einaudi, 1979, trad. it. Brunella Schisa, pubblicato originariamente a cura di Michel Foucault nella collana “Les vies parallèles”, Éditions Gallimard, 1978). Il portato del binarismo sessuale, in questo caso, è l’esclusione culturale (e quindi giuridica) delle persone intersex e, peggio ancora, la diffusione della pratica medica di interventi chirurgici precoci, e di successive terapie ormonali, per “correggere” i corpi che non si lasciano incasellare nella costruzione binaria dei sessi. La “naturalità” del binarismo sessuale, a quanto pare, ha bisogno della chirurgia e dell’endocrinologia per essere confermata e praticata, anche a costo di sconvolgere e mettere a repentaglio il benessere della persona.
È dunque fin dalla premessa del ragionamento (esistono due sessi e quindi quello di genere o è un concetto superfluo o al massimo deve limitarsi a riprodurre tale dicotomia) che si dimostra infondata la costruzione dell’ “ideologia del genere” (o “del gender” che dir si voglia) come idolo polemico e caricatura di un campo di conoscenza ormai affermato a livello internazionale e ricco di risultati importanti per la politica e la società, gli studi di genere. Infatti, l’espressione “ideologia del genere” non ha nulla a che vedere con gli studi di genere. Come ha ben dimostrato Sara Garbagnoli, in un articolo apparso nei giorni scorsi sulla Rivista AG About Gender – Rivista internazionale di studi di genere (Sara Garbagnoli, «L’ideologia del genere»: l’irresistibile ascesa di un’invenzione retorica vaticana contro la denaturalizzazione dell’ordine sessuale, 3 novembre 2014) l’origine di tale sintagma risale all’inizio degli anni 2000. Si ritrova per la prima volta in alcuni testi redatti sotto l’egida del Pontificio Consiglio per la Famiglia e si è diffuso in seguito principalmente in Italia e in Francia, soprattutto nel biennio 2011-2013, amplificato dai dibattiti pubblici connessi alle proposte di riforma legislativa per il superamento di ogni discriminazione fondata sull’orientamento sessuale e l’identità di genere.
Eppure, nemmeno l’espressione “ideologia del genere” nasce all’improvviso. Dietro c’è un lavoro che risale – come ricorda Sara Garbagnoli – alla metà degli anni ’90 in occasione della Conferenza Internazionale sulla Popolazione e lo Sviluppo (organizzata dalle Nazioni Unite al Cairo nel 1994) e della Conferenza mondiale sulle donne (convocata dall’ONU l’anno seguente a Pechino) al fine di “etichettare, uniformare e distorcere qualunque intervento (teorico, giuridico, politico, culturale) che produca forme di denaturalizzazione dell’ordine sessuale”. Il testo base di riferimento è il Lexicon. Termini ambigui e discussi su famiglia, vita e questioni etiche, pubblicato in Italia per la prima volta nel 2003 (Edizioni Dheoniane), in Francia nel 2005 (Pierre Téqui Éditions) e, da allora, tradotto in otto lingue. Si tratta di un dizionario enciclopedico composto da circa novanta lemmi sulle questioni di genere, sessualità e bioetica, stilato da più di settanta esperti attivi come consiglieri del Vaticano o come docenti nell’ambito delle Università pontificie. Tanto per citare un nome noto, il lemma Identità e differenza sessuale è stato scritto da Angelo Scola, attuale Cardinale Arcivescovo di Milano.
Monsignor Tony Anatrella, psicanalista e autore per il Lexicon del lemma Confusioni affettive e ideologiche che attraversano la coppia contemporanea, nell’introduzione al volume Gender : La controverse (a cura del Conseil pontifical pour la Famille, Pierre Téqui Éditions, 2011), intitolata La théorie du genre comme un cheval de Troie, afferma che la teoria di genere farebbe seguito e sostituirebbe «l’ideologia marxista», sarebbe «la nuova ideologia che serve apertamente di riferimento all’ONU», ancora «più oppressiva e pericolosa [del marxismo], presentandosi sotto le vesti di un discorso di liberazione da un’oppressione, di libertà, di uguaglianza» (è da notare che l’immagine del cavallo di Troia è stata ripresa dal Card. Angelo Bagnasco nel già ricordato Discorso di apertura alla 67/a Assemblea della Conferenza Episcopale Italiana).
Ed è qui il punto nodale della questione. Il tema tabù intorno al quale occorre sviluppare una discussione critica non è il genere. Il tabù è costituito dai rapporti storici e sociali di dominio che hanno improntato e tuttora improntano le pratiche sociali di esclusione delle persone che non sono maschi, eterosessuali e cisgender (ossia che si sentono a proprio agio con il genere che gli è stato assegnato fin dalla nascita).
Il dominio degli uomini sulle donne, la negazione socio-culturale dell’esistenza delle persone intersex, l’esclusione dal giuridicamente rilevante delle vite delle persone omosessuali, la violenza sui corpi delle persone trans, costrette in modo ricattatorio a modifiche chirurgiche anche contro la loro volontà pur di ricevere riconoscimento giuridico per la loro identità di genere, tutto ciò è il vero tabù. Ed è comprensibile il perché lo sia diventato: discutere criticamente l’organizzazione della nostra società fondata sul binarismo sessuale e sul predominio maschile, mette a rischio la perpetuazione di tale assetto di potere.
Secondo gli ideatori dell’espressione “ideologia del genere” le coppie concettuali maschio/femmina, uomo/donna coincidono. Inoltre, il sesso biologico è l’unica cosa che conta e il genere è una fumisteria accademica. È questo tutto ciò che ha da dirci il discorso intorno al sesso che gli esperti Vaticani da tempo propugnano. Chiunque abbia una sia pur superficiale conoscenza degli studi di genere sa benissimo di poter trovare una pluralità di posizioni e una ricchezza di argomentazioni che il sintagma “ideologia del genere”, in quanto “dispositivo retorico reazionario”, per citare ancora una volta Sara Garbagnoli, ovviamente occulta, additando negli studi di genere (e in ogni movimento sociale di promozione dei diritti delle donne e delle persone LGBTI) la minaccia di quell’“ordine trascendente, presociale, immutabile” in cui, secondo gli esperti del Vaticano, il sesso e la sessualità si devono iscrivere.
Nell’introduzione al bel libro di Lia Viola, Al di là del genere (Mimesis, 2013), Francesco Remotti propone un’ammirevole sintesi delle tre prospettive a cui si può ricondurre la dicotomia maschile/femminile: una naturalistica, adottata dal senso comune che si avvale di argomentazioni proprie delle scienze naturali, in base alla quale le categorie di genere non sono frutto di un qualche intervento culturale, ma sono già date in natura; una teologica, che riconduce a un intervento divino la distinzione maschile/femminile a partire da un’originaria androginia e infine una umanistica, che condividendo con quella teologica la visione di un’androginia delle origini, assegna il gesto del separare alla società in cui viviamo. La sottolineatura interessante di Francesco Remotti sta nell’evidenziare come il punto di vista naturalistico e quello teologico si possano ben armonizzare in un’ottica creazionista, sicché la divinità che ha creato la natura ha creato anche il maschile e il femminile.
Dunque, nella lotta senza quartiere contro le riforme giuridiche in atto in tutto il mondo (non già per ossequio al pensiero unico, ma per una forma di consapevolezza diffusa circa la oppressione e la sofferenza che causa alle persone l’aderenza acritica al binarismo sessuale come principio organizzativo della società) la Chiesa cattolica si allea con chiunque sia utile al suo scopo, trovando terreno fertile non solo nei Paesi islamici (come è successo all’ONU, nel 2008, in occasione della discussione di una proposta di moratoria contro la pena di morte per le persone omosessuali), ma perfino nella tanto laïque France e supportando tutti coloro che possono agire a qualsiasi livello per contrastare le riforme in atto, a prescindere dalla condivisione di un punto di partenza teologico. La posta in gioco è alta: la perdita del controllo della sfera più intima delle persone e delle dinamiche sociali che l’espressione di genere innesca. Pertanto non si può andare molto per il sottile.
La ragione della stessa esistenza degli studi di genere riposa nella presa d’atto che la socializzazione dei corpi conferisce loro un senso, dando origine a ruoli sociali e a norme comportamentali che nel tempo abbiamo imparato a riconoscere come oppressive per una serie di gruppi di persone. L’autonomia concettuale del “genere” rispetto al “sesso biologico” è resa necessaria dal fatto che un corpo maschile o femminile in tutte le epoche storiche e in tutte le latitudini non innesca le stesse dinamiche sociali e le stesse norme comportamentali (cfr. Vera Tripodi, Filosofia della sessualità, Carocci, 2011; si veda inoltre Elena Casetta, Sesso, in Manifesto per un nuovo femminismo, (a cura di) Maria Grazia Turri, Mimesis, 2013). A documentarlo ci sono infinite poesie, romanzi, testi normativi, resoconti storici. Gli studi di genere non possono essere etichettati come ideologia, anche a voler utilizzare questo termine in senso marxista come “santificazione simbolica dell’esistente presentato come destino naturale-eterno” (Cfr. Diego Fusaro, Ideologia gender e capitalismo, in Scenari, 7 novembre 2014), in quanto loro fine ed effetto è, al contrario, denaturalizzare l’esistente, rivelarne la storicità e permetterne in questo modo una critica. La “santificazione simbolica dell’esistente”, semmai, è l’obiettivo degli esperti vaticani che hanno inventato l’espressione “ideologia del genere”, non certo dei teorici degli studi di genere, nati per analizzare le modalità sociali attraverso cui il binarismo sessuale è naturalizzato.
Parafrasando Pierre Bourdieu, potremmo dire che la realtà sociale di una pratica quale l’espressione di genere differisce a seconda che la si percepisca e la si pensi come necessariamente determinata dal binarismo sessuale, come frutto di una tradizione culturale, o come risultato della relazione che l’individuo liberamente pone in essere con la società che lo circonda. È questa complessità di approcci che difetta a coloro che amano riferirsi alla presunta “ideologia del genere” e che invece caratterizza gli studi di genere.
Quando è nata l’espressione “ideologia del genere”, chi sono i suoi fautori, quali sono i testi di riferimento: tutto ciò non può essere celato in un dibattito pubblico se si vuole essere onesti intellettualmente. Il sintagma “ideologia del genere” ha una sua storia e un suo contenuto ben preciso, che non può essere confuso – salvo voler retoricamente mistificare la realtà – con la stratificazione del sapere prodotto dagli studi di genere. Storicizzare il presente è sempre difficile, ma non per questo è meno necessario.

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