Il tramonto della concertazione

Nel momento in cui sto scrivendo la bufera è passata. Nel corso della notte il governo ha incassato al senato una larga fiducia sul Jobs Act, sebbene la delega concessa non menzioni neppure il tema che ormai da settimane monopolizza il dibattito politico italiano. Dell’articolo 18 e della materia dei licenziamenti sarà questione, e non è chiaro su quali basi, soltanto quando il governo metterà mano ai decreti attuativi.
Ora, a prescindere da ogni considerazione sul merito dei provvedimenti e sul ricorso alla fiducia di cui Renzi si è servito per farli passare, è indubbio che il premier abbia ottenuto un duplice risultato. Non solo la minoranza interna al PD è stata di fatto azzerata, ma con essa è stata liquidata anche ogni idea di concertazione tra le parti sociali.
Nell’incontro tenutosi martedì a Palazzo Chigi tra governo e parti sindacali, l’unità di quest’ultime si è rotta: di contro alla convinzione di Luigi Angeletti che «l’idea che si possa cambiare l’Italia dall’alto a colpi di voti di fiducia e di leggi delega cominci a mostrare la corda», Susanna Camusso ha constatato quello che è sotto gli occhi di tutti, ovverosia che tutto si può dire tranne che si sia aperta una stagione di concertazione. Ma quando, al termine dei lavori, ha ammonito che «non sarebbe finita lì», la sua presa di posizione è stata liquidata a dir poco lapidariamente: anche di questo, ha ribattuto Renzi, «ce ne faremo una ragione».
Sempre più, la rappresentanza sindacale sembra avviata verso un irreversibile declino, condannata all’irrilevanza dal progressivo sfaldamento dell’istanza su cui essa si fonda: in un contesto in cui assistiamo al ritorno dello spettro non del comunismo, ma della logica del plusvalore nella sua forma più brutale, gli spazi per la rivendicazione dei diritti dei lavoratori si restringono inevitabilmente. Quelli che fino a ieri apparivano intoccabili in quanto una volta per tutte acquisiti ci vengono regolarmente presentati come dei privilegi, ed anzi come un’inaccettabile discriminazione nei confronti di coloro che non ne godono. E a nulla vale sottolineare, come giustamente fa Maurizio Landini, che coloro che sono ancora privi di determinati diritti dovrebbero, piuttosto che invocarne la soppressione, reclamarne l’estensione. Perché se la posizione degli stessi lavoratori – occorre riconoscerlo – è un’altra, la spiegazione non può semplicemente risiedere nel difetto di ciò che un tempo si sarebbe chiamata coscienza di classe, ma ha forse a che vedere con la sopraggiunta impossibilità di assumere la posizione soggettiva a essa corrispondente.
Nell’attuale protrarsi della crisi si potrebbe forse scorgere un’occasione: quella di risalire al di qua della svolta consumatasi, a partire dagli anni sessanta, con lo spostamento dell’asse dello scontro tra capitale e lavoro dal piano dell’autonomia e dell’autodeterminazione dei produttori a quello delle compensazione del loro sacrificio in termini di redistribuzione del reddito e di accesso al consumo. Da una fase storica in cui siffatta compensazione non solo risulta impraticabile, ma viene più o meno apertamente rimessa in discussione nel suo stesso principio, ci si potrebbe attendere la riapertura di spazi di negoziazione e conflittualità più radicali, e in ultima analisi il recupero di un’attitudine di rifiuto nei confronti della supposta esigenza di immolarsi al Moloch della ragione economica e della produttività.
Non fosse che, dagli anni sessanta a oggi, a essere mutate sono innanzitutto le forme di produzione di quella soggettività la cui riappropriazione si tratterebbe finalmente di mettere all’ordine del giorno. L’istituzione del legame sociale e la costruzione dell’identità soggettiva a essa correlativa non avviene infatti più per via di identificazione simbolica (alla legge, al padre in quanto suo rappresentante, a una determinata classe sociale in quanto fondata su di un insieme di valori specifici, attivamente rinegoziati e condivisi di generazione in generazione), e in larga parte nemmeno più immaginaria secondo il modello definito da Freud in relazione alla psicologia delle masse, bensì in relazione alla produzione, alla circolazione e al consumo degli oggetti. Sono infatti ormai unicamente gli oggetti offertici dal mercato, nella tradizionale forma materiale delle merci o in quella immateriale delle immagini e dell’informazione, a dirci chi vogliamo essere e chi siamo, a lenire le nostre angosce e ad attribuirci un posto nel mondo. E sono soprattutto gli oggetti a mediare il nostro rapporto agli altri, a costituire il fondamento di ogni forma di socializzazione possibile.
La compensazione ha finito per sostituirsi surrettiziamente alla realtà la cui perdita avrebbe dovuto limitarsi a surrogare, di modo che, di fronte alla prospettiva del suo venir meno, non rimane che il nulla, secondo una logica cui non c’è alternativa, e quindi opposizione, possibile.
Si tratta di comprendere come i lavoratori si trovino nella stessa posizione di colui al quale viene posto il dilemma “o la borsa o la vita”. Che non è poi affatto – come altri hanno fatto notare – un vero dilemma: perché se è evidente che scegliendo la borsa la si perderà comunque assieme alla vita, anche optando per la vita le cose non migliorano di molto, dal momento che la vita, senza la borsa, non potrà in alcun modo essere la stessa. Allo stesso modo, alla progressiva compressione dei loro diritti, i lavoratori non hanno nulla da opporre: perché qualunque resistenza, per quanto circoscritta, assume ineluttabilmente la forma di un’autocondanna alla marginalità, all’esclusione dal legame sociale, all’essere rigettati all’esterno dell’impossibile quanto irrinunciabile comunità della produzione e del consumo.
E a fronte di questo dato di fatto, ogni considerazione di segno contrario, per quanto giusta e fondata, finisce effettivamente per essere qualcosa di cui ci si può ben fare una ragione.

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