Radicali liberi. Bertinotti, la sinistra (fallita) e il liberalismo

Ho ascoltato attentamente quello che ha detto Fausto Bertinotti a Todi pochi giorni fa. L’ex presidente della Camera ed ex esponente di Rifondazione comunista ha affermato, in soldoni, che «il comunismo ha fallito», e che la cultura politica da cui ripartire dopo questo fallimento è la cultura liberale, che si è occupata dell’individuo, difendendone i diritti anche contro lo Stato. Non si sono contate, sui social network, le reazioni tra l’ironico e l’indignato contro il vecchio dirigente lombardiano: il comunista in cachemire, il frequentatore dei salotti cafonal della Roma mondana, l’invitato ai matrimoni vip, uno dei soggetti preferiti dell’obiettivo impietoso di Umberto Pizzi. Dall’altro lato, l’abiura di Fausto ha mandato in sollucchero i liberisti alle vongole e quella destra italiana da sempre raccolta attorno agli ideali fané dell’anticomunismo di marca berlusconiana. In mezzo, un Pd del tutto disinteressato alla questione, certamente percepita da qualcuno come barboso vecchiume novecentesco che sottrae energie e tempo alla dromocrazia renziana, ostacolo “ideologico” – la parola-chiave degli ultimi due decenni, la briscola che permette di liquidare ogni discorso politico vagamente più articolato di un annuncio – alle imprese del futuristico premier che “pim-pum-pam” (o Bim Bum Bam) aggiusta tutto in cinque minuti. A dire il vero, qualcuno nel Pd (un partito-contenitore buono per tutti i liquori) ha bollato le parole di Bertinotti come “destrorse”, segno patente di una dissonanza cognitiva da parte di chi da decenni spiana la strada, in molti settori (si pensi all’università e alla ricerca), a ricette thatcheriane pensando invece di star facendo la rivoluzione.

E del resto a questi anni di santini rivoluzionari, di pugni chiusi, di reboante gergo della sovversione, di appelli alla violenza, di gesti plastici, di Valle occupati, di gite in Chiapas, ha contribuito grandemente pure il buon Fausto, assieme a tutta una sinistra “radicale” che mentre salutava con fervore la Gramsci-renaissance trasformava il fondatore del partito in «un professore sardo che insegna teoria del discorso al Politecnico di Londra». Sono le parole di Terry Eagleton, caustico critico letterario irlandese, il quale imputa a questa sinistra parolaia (come non ricordare ora che Giampaolo Pansa da anni chiama Bertinotti «il parolaio rosso»?) di fare molto rumore per nulla, intenta in realtà a proporre misure poco più a sinistra di Ted Kennedy.
E non è forse questo slippery slope a permettere oggi a mitissimi scout di usare il termine “rivoluzione” a ogni piè sospinto, e a citare persino il Mao del “pranzo di gala”? Rivoluzione è diventato un indirizzo e-mail del governo; un uso talmente abbondante da far dire persino al Corriere della Sera (non proprio un samizdat anti-renziano), per mano di Michele Ainis, che neanche Lenin usava quel termine con quella frequenza.
Circondati da rivoluzionari da operetta, ammansiti da decenni di welfare state (che, per carità, meno male che c’è stato), zittiti dal piombo delle P38, confusi dall’insistenza – d’importazione – per le questioni etnico-religiose e sessuali, dal problema dell’identità, ci siamo dimenticati di alcune questioni che negli anni ’70 qualcuno aveva provato a discutere mentre i ragazzi giocavano alla rivoluzione. La democrazia autoritaria, le involuzioni della rappresentanza, lo smascheramento della fictio della democrazia, il racconto della crisi del Politico, sono stati i temi che una parte importante degli intellettuali (anche italiani) ha discusso. Poi l’ottantanove, la “fine della Storia” e l’inizio di un’era che si credeva post-storica, pacificata, con la vittoria del capitalismo, della democrazia liberale, del mercato. Se la democrazia liberale aveva trionfato, a che pro interrogarsi ancora sui suoi limiti? Tutto sarebbe andato per il meglio, e del resto le dure repliche della Storia non ammettevano appelli.
La crisi economica ha suonato la sveglia per molti (ma non per tutti). Vent’anni di miopia, di esaltazione della magnifiche sorti e progressive, vent’anni di “momento unipolare” (per usare l’espressione cara a quei neocon che tanto hanno spadroneggiato in questi quattro lustri). E, di contro, vent’anni di ubriacatura, di “radicalismo”, di sufficienza verso ogni ipotesi di costituzione di un partito autenticamente di sinistra che affrontasse sul serio le questioni prima ricordate, che ripensasse la modernità politica, a partire dalla messa in discussione della scelta a favore della democrazia rappresentativa, che possiamo far risalire al Federalist, che discutesse del problema della classe sociale (certo combinandola con la riflessione sul genere e sull’identità) e della sua frammentazione, che traghettasse l’elettorato verso una più matura cultura politica, conscia delle difficoltà di una democrazia che si presenta come rappresentativa e che invece è minata dalla crisi del parlamentarismo. È come se la consapevolezza della sconfitta, per le vecchie classi dirigenti comuniste, si fosse trasformata in una sorta di trasposizione della rivolta in un contesto parodico, verbale, simbolico: la rivoluzione, non potendola fare sul serio (ammesso e non concesso che quei vecchi dirigenti ci avessero mai creduto, ché la lealtà togliattiana alla democrazia costituzionale aveva da decenni scartato l’ipotesi dell’insurrezione armata), diventa un fatto di parole. Il postmoderno (per tanti altri versi meritoria corrente culturale) chiude l’orizzonte di possibilità di ogni cambiamento radicale, e ammette come unica via d’uscita il patchwork necrofilo, il gioco ironico, la scomposizione, la decostruzione, la riscoperta del localismo, la frammentazione delle identità, le piccole comunità, la fine delle grandi narrazioni sostituite dal piccolo cabotaggio di battaglie dal respiro corto, il bio, il politicamente corretto. E ancora, il ventriloquio delle classi subalterne, quel “parlare a nome di” che invece zittiva le masse di diseredati per dar voce alle élite globali e cosmopolite, intente a rappresentarli esteticamente ma guardandosi bene dal chiedere loro cosa veramente volessero.
Insomma, se dici che fai la rivoluzione, allora falla. Se non la fai, allora cerca di capire come si sta nel gorgo del Politico e lavora per decostruire la grande narrazione della democrazia.
Se oggi la politica si dibatte tra, da un lato, un’acritica adesione alle logiche decisionistiche che umiliano il parlamentarismo e la rappresentanza in nome di una (tutta da dimostrare) efficienza dell’azione dei governi e, dall’altro, le proposte velleitarie di democrazia diretta fondata su meccanismi farraginosi e protocolli oscuri, lo dobbiamo anche a quella sinistra parolaia che invocava la rivoluzione e andava alle feste tanto care a Dagospia. Lo dobbiamo a una sinistra movimentista e romantica che si è crogiolata in sogni di palingenesi affidandone la realizzazione a gruppuscoli elitari che mai hanno avuto a che fare con la rappresentanza delle classi subalterne, e anzi addirittura ne hanno avuto orrore. Una sinistra che chiacchiera del “comune” e che ha lasciato soli, caricandoli perfino di una sorta di senso di colpa, coloro che hanno inteso pensare alla loro personale, individuale felicità.
Perché questo è il punto: mentre il liberalismo esaltava il benessere individuale e il suo perseguimento, c’era chi scavalcava il soggetto e pensava ancora al collettivo. Un collettivo che però non voleva più essere rappresentato (sarà per quello che, mentre la sinistra “radicale” ancora afferma di rappresentare i diseredati, quei diseredati quella sinistra non la votano più da decenni?), poiché chiedeva, prima di essere considerato come tale, che ci si prendesse cura degli individui, dei loro bisogni, delle loro fatiche.
Pensare oggi un individualismo libertario di sinistra non significa abdicare al progetto di pensare come stare insieme nel XXI secolo. Significa pensare come la propria felicità si possa combinare con quella degli altri. Significa pensare l’individuo come un prius, la sua libertà come una condizione imprescindibile per poter pensare qualsivoglia forma di aggregazione. Significa riconoscere la titolarità di diritti universali, e ancora prima chiedere che i soggetti partecipino alla definizione di quei diritti (in che forma, in che modo, è un progetto e una sfida tutta da vedere: è la sfida). Significa che solo laddove esistono soggetti economicamente, culturalmente, cognitivamente, liberi, può esistere il collettivo.

 

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